Il lungo viaggio da Bisanzio ad harlem - New York: Due importanti mostre al Met illustrano la politica culturale del museo

Una rassegna presenta l’arte africana bizantina, l’altra indaga l’Harlem Renaissance del ‘900

Nostra Signora Kryotissa (“Dominatrice del mondo”) assisa in trono con il Bambino in mano. Entrambi guardano in alto, lievemente alla nostra destra, verso l’eterno, ma non in modo diretto. Sembra una dea, probabilmente Iside, prima egiziaca, poi romana, infine cristiana. Accanto, in lieve prominenza, due santi in paramenti sacri e militari, gli unici dall’incarnato di questo mondo, lo sguardo severo rivolto a noi, come a marcare una soglia e a impedire un passaggio. Dietro, due cherubini, rivolti alla Mano del Signore che cala da lassù, sopra la testa di Maria e Gesù, come a volerli trainare verso l’alto con sé.

Cambio di scena

Madonne del Sud Europa, tratti delicati, i capelli lisci o lievemente mossi, spesso velati, in dialogo con Madonne del Nord – i volti così differenti e così simili – tutte in procinto di ascoltare le parole di Dio riferite dall’Angelo, o straziate dal dolore di fronte alla Crocifissione. Sono madonne meno distanti di quelle disegnate dalla maniera greca, come Vasari chiamava l’arte di Bisanzio, più umane e meno “iconiche”. Ma nonostante le differenze, in ogni tempo e a ogni latitudine la storia del mondo, della grazia e della salvezza, è la storia di una madre.

Cambio di scena

Mi ricordo di una madonna nera (Madona Pretu), l’incarnato scuro con toni di biacca e blu che ricordano quelli dell’icona del Sinai vista all’inizio. Il fondo è come una notte senza fine, e sembra voler indicare una dimensione del sacro diversa da quella dell’oro che fa da sfondo al medioevo. La corona e il vestito candido accendono contrasti caraibici, con le strisce rosso vermiglio che scandiscono il velo. Maria, la madre di tutti, ma soprattutto degli ultimi, dei martiri, degli oppressi.

Quando si assiste a un’importante dichiarazione di politica culturale da parte di una delle più importanti istituzioni museali al mondo, il Metropolitan Museum of Art di New York, bisogna sapere ascoltare. Con due mostre (“Africa and Byzantium”, conclusasi lo scorso 3 marzo, e “The Harlem Renaissance and Transatlantic Modernism”, fino al 28 luglio), oltre a un riallestimento durato cinque anni, che cambia la fisionomia intera dell’esposizione permanente del museo, come nel caso delle gallerie di arte europea (con molte più stanze allestite per via tematica e non solo cronologica), il Met intende senza dubbio fare i conti con il passato e con il presente.

L'HARLEM RENAISSANCE È IL PIÙ IMPORTANTE MOVIMENTO D'AVANGUARDIA DELLA COMUNITÀ AFROAMERICANA FRA LE DUE GUERRE MONDIALI

Il passato viene rivisto, rivissuto e riparato in almeno due modi. Il primo con la mostra sull’arte bizantina africana, con prestiti importanti, come una delle più antiche icone conosciute, l’immagine mariana citata nella prima scena, uno dei tesori inestimabili del Monastero di Santa Caterina nel Sinai, a mia memoria mai uscito prima dalle mura dell’istituzione sacra che la ospitano dal medioevo. Accompagnata, peraltro, da altri e preziosissimi esempi di arte africana, terrecotte, mosaici, arazzi, dall’Egitto, l’Etiopia, la Nubia, che testimoniano di una vivace produzione di arte sacra e cristiana nell’Africa pre-islamica, e di reciproche influenze tra Nord e Sud del Mediterraneo.

Ma il passato viene rivissuto anche come riparazione necessaria, avvenuta con colpevole ritardo, dopo uno dei più grandi fiaschi della storia curatoriale recente. Il luogo del crimine è proprio il Met, nel 1969, e la mostra è Harlem on My Mind: Cultural Capital of Black America 1900-1968. Si sarebbe dovuta trattare di una celebrazione della Harlem Renaissance, il più importante (e ancora snobisticamente misconosciuto, almeno in Italia) movimento d’avanguardia americano tra le due guerre mondiali. Si tratta di un periodo di grande euforia creativa nella comunità afroamericana, con ritrattisti come Charles Henry Alston, Winold Reiss, William H. Johnson, Laura Wheeler Waring (e la stupenda Girl with Pomegranate) – in cerca di un’identità, uno stile e una profondità psicologica diversa da quella della tradizione “classica” (cioè bianca) occidentale –, e grandi artisti e illustratori, come Aaron Douglas, con le sue sincopate mitologie e gestualità, quasi un afro-futurismo ante litteram.

D’altra parte, come ogni vero movimento artistico, l’Harlem Renaissance aveva alle spalle opere di pensiero pionieristiche e importanti come quelle dei fondatori e principali animatori del movimento New Negro, Alain Locke and W. E. B. Du Bois, rivolto a una segregata e silenziata comunità borghese afroamericana, in cerca di una voce e un suono (a quest’ultimo penserà niente meno che Duke Ellington).

La mostra del 1969, come si diceva, fu uno dei più grandi disastri della storia del Met, data la mancanza di dipinti e la presenza solo di fotografie e di estratti di giornale. Il pubblico, scandalizzato, si lamentò della mancanza di opera d’arte, che pure erano presenti nelle collezioni, come a dire che se ne poteva parlare, le si doveva comprare, ma che in fondo non ci fosse nulla di importante da vedere. Da allora, il Met ha cercato in diversi modi di “riparare”, senza però mai davvero riuscirci.

Ora, con il passaggio di testimone tra la mostra sull’arte bizantina africana e la celebrazione dell’avanguardia afroamericana, condita da un’esposizione dell’arte europea che esalta le differenze e il dialogo tra “medioevi”, “rinascimenti” e “barocchi”, il Metropolitan Museum sembra aver dimostrato di poter sostenere l’enorme sforzo di rileggere il passato (anche il proprio) per reinterpretare un presente segnato da differenze, fratture, scambi, riconciliazioni... e di nuovo differenze, fratture, scambi, riconciliazioni: and so on, so on, so on.

L'Autore

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Traduttore per diverse case editrici italiane, collabora con AW ArtMag per la recensione dei più interessanti libri d’arte pubblicati all’estero e ancora inediti in Italia.

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