Alfredo Rapetti Mogol, in arte Cheope, dipinge parole. Affascinato dagli alfabeti antichi, è uno scrittore di testi di canzoni di successo internazionale e un artista visivo di rilievo. Qui di seguito i punti di riferimento, l’eredità artistica e i progetti futuri.
Paroliere, autore, pittore. Sfaccettature di un’espressione creativa che si alternano o si integrano.
Si alternano integrandosi, aiutandosi l’un l’altra, dandosi vicendevolmente respiro, alleggerendosi nella condivisione di responsabilità. La parola nella musica si muove, è vibrazione sonora, nella pittura diventa segno, silenzio in attesa di una voce e di due occhi che le diano vita.
Il primo successo come autore di canzoni è arrivato nel ‘93 con Battito Animale di Raf. L’inizio della tua affermazione nel percorso figurativo.
La scoperta del segno in pittura, della parola dipinta. Mi sono sentito per la prima volta rappresentato e ho ritrovato la mia radice. Scrittura come radiografia emotiva dell’essere umano, elettrocardiogramma del nostro vissuto.
La collaborazione con Michelangelo Pistoletto.
Ho avuto l’onore di esporre, collaborare e diventare amico di un gigante dell’arte come Michelangelo Pistoletto, insieme al suo curatore Fortunato d’Amico. Stiamo lavorando a una grande installazione collettiva.
La passione per l’archeologia si riflette nella scelta del nome d’arte, Cheope, ma anche negli studi figurativi sull’alfabeto.
L’archeologia e gli antichi alfabeti mi hanno sempre affascinato. Segni a cui diamo voce producendo un suono che forma così una lingua per poter comunicare anche le minime emozioni ai miei occhi resta sempre un piccolo meraviglioso miracolo.
PER LUI, LA PAROLA IN MUSICA È VIBRAZIONE SONORA,
IN PITTURA SEGNO DI ATTESA DI UNA VOCE
Hai partecipato a due biennali di Venezia. Come le hai vissute?
Con gratitudine, entusiasmo e responsabilità. La biennale è una patente, un certificato di qualità in tutto il mondo. Qualcosa che resta. Ringrazio di cuore Duccio Trombadori e Vittorio Sgarbi per gli inviti.
Se dovessi spiegare a una persona non vedente i tuoi dipinti e a una persona non udente i testi delle canzoni che scrivi.
A una persona non vedente direi di immaginarsi le parole che sente come una fila di persone in posizioni differenti, a un non udente dipingerei i miei testi, quello che in parte già faccio.
Nel mondo delle arti visive, gli autori che più degli altri ti emozionano.
Le mie stelle polari sono state e restano Lucio Fontana, Alberto Burri, Antoni Tàpies, Jean Degottex, Maria Lai, Anselm Kiefer, Robert Ryman. Tra i contemporanei amo moltissimo Lawrence Carrol, Sofie Ko, Serena Giorgi, Claudio Parmiggiani.
Come stai vivendo le limitazioni imposte dalla pandemia e in che modo incidono sul tuo lavoro.
Ho vissuto nella prima parte della pandemia un momento di immobilità totale, poi ho assorbito l’impatto e ho cercato di lavorare con più cura e attenzione del solito. L’artista è un po’ un monaco ed è naturalmente abituato e abitato dal silenzio e dalla solitudine. Le limitazioni le soffro pensando soprattutto ai miei figli e a tutti i giovani privati di spazi di libertà come la musica.
APPASSIONATO DI ARCHEOLOGIA, COLLABORA CON PISTOLETTO
E PARTECIPA A DUE BIENNALI DI VENEZIA
Dal nonno Mariano, in arte Calibi, editore musicale e autore di canzoni a tuo padre, Giulio Rapetti Mogol, considerato il più grande paroliere di tutti i tempi, al nonno materno a tua madre, sei cresciuto immerso nell’ispirazione artistica. Un’eredità che può stimolare ma anche intimidire.
È sicuramente un’eredità pesante che solo attraverso da un lato l’incoscienza e dall’altro la consapevolezza di non poter e non voler fare altro mi sono confrontato con la storia della mia famiglia. Ho raggiunto traguardi all’inizio per me impensabili, sono grato alla vita e al pubblico che mi hanno regalato tanto.
Padroneggiare l’armonia compositiva ti ha portato a risultati importanti. Una sensibilità a tutto tondo che ti spinge a ricercare o sfidare un equilibrio?
Oltre all’equilibrio compositivo, in un quadro o in una canzone, ricerco sempre l’autenticità, la sincerità espressiva, la rappresentazione artistica del mio vissuto, quel frammento di verità da tutti condiviso, il brivido che Raymond Carver chiamava “shock da riconoscimento”. Inoltre, da un’opera esigo l’autonomia di linguaggio, una comunicazione concettuale ed emotiva capace di trasmettere un messaggio senza informazioni supplementari o sussidiarie estranee al puro processo creativo.