CURA DI BELLEZZA - New York. Retrospettiva di Nick Cave alla Guggenheim

Scultore, performer, ballerino: la sua opera può essere vista come un’incessante attività di tessitura

Tu dici bellezza, e ok, io ci posso stare. Per quanto soprattutto nel nostro paese sia difficile da capire, però, la bellezza non è più un valore assoluto nell’arte da almeno due secoli, forse anche tre. È mutevole, la bellezza. È stata usata per escludere, per fissare criteri da rispettare, la bellezza. Out, insomma. Eppure non se ne può fare a meno. Dire che non costituisce più un idolo al quale inginocchiarsi, non significa dire che essa sia del tutto destituita, come ha giustamente osservato parte della critica d’arte più autorevole degli ultimi anni, ad esempio Arthur Danto.

FA UN USO STRUMENTALE DELLA BELLEZZA, INTESA NON PIÙ COME VALORE MA COME MEZZO

Significa piuttosto interrogarsi sulle sue possibilità di esistenza oggigiorno. Artista afroamericano, queer, attivista politico, Nick Cave sembrerebbe possedere tutti i criteri per far parte a pieno titolo di quella generazione di artisti che ultimamente più si è impegnata a destituire la bellezza quale valore fondante dell’arte. Invece, è uno degli artisti che ne ha indagato più a fondo l’opportunità, fra gli strappi politici e sociali che contraddistinguono la società odierna. Scultore, performer, ballerino, la sua opera può essere vista come un’incessante attività di tessitura: fin dai suoi primi Soundsuits del 1992, i resti di scene di abusi della polizia, le radici africane, il gusto del carnevalesco, un mix di culture che vanno dal rococò alla scena house di Chicago, con un fine lavoro di ago e cucito concorrono a tentare di ricomporre le fratture sociali e a darne un’immagine d’insieme che non rinunci a mostrarne le contraddizioni. È questa, ormai, forse una delle poche vere possibilità di esistenza della bellezza: in quella che gli americani chiamano social practice of art (pratica sociale dell’arte), il processo artistico è chiamato ad avere un impatto concreto sulla società. Nei costumi psichedelici di Cave, nelle insondabili figure antropomorfe che si celano sotto a quelli che sembrano essere abiti di una rappresentazione – che rappresentazione non è, ma vita vera e vissuta – si riconosce un uso strumentale della bellezza, che appunto non è più valore, ma mezzo. Mezzo di cosa? Di una cura, una ricomposizione che attraversa le faglie delle diseguaglianze secolari che attraversano la storia americana. Il tema della ricostruzione, il desiderio di un’unità ritrovata, è un’esigenza su cui i principali musei americani si stanno interrogando negli ultimi tempi, come dimostra anche la mostra di Tillmans al MoMA, To Look Without Fear.

NEI SOUNDSUITS DEL '92 VEDIAMO RESTI DI SCENE DI ABUSI DELLA POLIZIA,
LE SUE RADICI AFRICANE, UN MIX DI CULTURE CHE VANNO DAL ROCOCÒ ALLA SCENA HOUSE DI CHICAGO


E, non da ultimo, per il Guggenheim è una buona occasione per rispondere alle accuse di razzismo che hanno portato all’allontanamento della curatrice Nancy Spector a seguito della dichiarazioni di Chaédria LaBouvier. Divisa in sezioni tematiche – Cosa è stato, Cos’è, Cosa sarà – Forothermore, oltre ad essere a tutti gli effetti una retrospettiva, ha il compito di aprire per il via di una possibile cura: una strada lunghissima, in macchina con amici, in silenzio, senza una destinazione precisa, con come sottofondo un interminabile riff funk.

L'Autore

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Dopo aver deciso a sette anni di diventare scrittore, nei successivi trenta partecipa a diverse attività editoriali - come saggista, traduttore, critico - immancabilmente evitando l'obiettivo prefissato in tenera età. Nell'attesa, coltiva la sua grafomania e collabora con l'università IULM di Milano nei corsi di Filosofia dell'arte e di Estetica. Quando non è sul divano con un libro in mano, è in viaggio. In realtà, anche quando è su un divano con un libro in mano è in viaggio. E quando visita una mostra o guarda un film. Mai presente a se stesso, insomma, viaggia.

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