In rassegna modelle, celebrità dell’arte e dello spettacolo, ma anche barboni, malati di mente e vittime del napalm
A Palazzo Reale, foto di moda e ritratti portano immagini di modelle e abiti splendidi, fra celebrità dell’arte, dello spettacolo, della politica. Sono gli scatti di Richard Avedon, il fotografo newyorkese (1923-2004) che ha rivoluzionato il modo di intendere le foto di moda portando in primo piano l’importanza della relazione tra soggetto, fotografo, pubblico. Fotografa le modelle all’esterno, nei caffè parigini, riprende anche le loro emozioni, orchestra come un regista dinamiche scene di vita reale. I soggetti dei ritratti, invece, isolati nel vuoto, sembrano dire sempre tutto ciò che non si vede.
FOTOGRAFA LE MODELLE ALL'ESTERNO, NEI CAFFÈ PARIGINI E RIPRENDE ANCHE LE LORO EMOZIONI
A 12 anni, già si diverte a fotografare gli abiti prodotti dalla sua famiglia; dal ‘42 al ’44, liquidati dopo un solo anno gli studi di filosofia alla Columbia University, si trova a fotografare ritratti di identità dei marinai e autopsie, per la marina militare. Fa il suo debutto nel mondo della moda che conta con l’amico Aleksej Brodovič, art director di Harper’s Bazaar: è il momento giusto quello del dopoguerra per pensare all’abbigliamento, c’è bisogno di tornare a sognare, di riconquistare eleganza e glamour.
IL SUO SGUARDO È SEMPRE LUCIDO ANCHE QUANDO METTE IN SCENA LA SOFFERENZA, QUANDO INSEGUE LA BELLEZZA AGGHIACCIANTE
Quando nel ’55 fotografa Dovima tra 2 elefanti di un circo è già un fotografo affermato. La modella, al centro, indossa un abito da sera firmato Dior e, con un gesto teatrale, allarga le braccia verso i due animali. Un fermo immagine quasi surreale, che fa la differenza per i contrappunti visivi, per la ritmica compositiva di abiti e corpi, per le scale sapienti del bianco e nero, fiore all’occhiello di tutto il suo lavoro.
I SOGGETTI ISOLATI NEL VUOTO SEMBRANO DIRE SEMPRE TUTTO CIÒ CHE NON SI VEDE
Dai primi anni ’60, si concentra anche sul ritratto, il suo obiettivo non è solo per divi, intellettuali, artisti e politici, è per chiunque catturi la sua attenzione: “i ritratti dei vagabondi sono comei cugini americani più giovani dei barboni gentiluomini di Beckett” dirà nel 2002, dopo aver fotografato la classe operaia, i diseredati, togliendo molto fascino all’idealizzazione dell’American West. Fotografa i malati di mente e le vittime del napalm in Vietnam, poi anche il padre morente. Predilige i grandi formati, sempre fondo chiaro, uniforme, gesti espressivi, inquadrature ravvicinate, bilanciamento tra pieni e vuoti. Il suo set minimalista è inequivocabile eppure confonde i confini tra verità e finzione, tra osservato e osservante. Intimo e altero, il suo sguardo è sempre lucido, anche quando mette in scena la sofferenza, quando insegue quella “bellezza agghiacciante” che tutti possediamo anche nell’imbruttimento. Sì, come spesso diceva, la fotografia è fiction, ma, tra la realtà incontrata e inventata, nei suoi scatti scorre la vita.