La scomparsa di Boris Zaborov poco dopo la pubblicazione di “Impasse Poule, 13”

Quel primo incontro al museo Puskin

Qui di seguito, l’intenso ricordo della sua traduttrice e amica Claudia Sugliano

“Ho vissuto la vita e, se domani me ne andrò, nessuno, neppure le persone a me care, potrà dire: ci ha lasciato troppo presto.Gettando uno sguardo penetrante a quanto vissuto sullo sfondo di un’epoca terribile, devo considerare felice la mia vita. Quanti straordinari e inspiegabili incroci, talvolta mistici, si sono dovuti verificare per darmi agio di sopravvivere? Perire, come ho già detto, era più facile che rimanere in vita. La morte mi ha guardato molte volte negli occhi, e poi si è ritirata di fronte a una qualche forza superiore. Si avvicina il mio turno di guardarla negli occhi. Mi trascinerò forse nelle sue fauci come un coniglio in quelle di un boa? Prima di presentarmi davanti a TE, Creatore, chiedo un ultimo favore: di permettermi , nell’ultimo secondo, essendo in piena coscienza, di dire addio a mia moglie e un grazie  per le gioie della vita”.

Sono trascorsi pochi mesi da quando, quasi al termine di un lavoro appassionante e impegnativo, traducevo queste parole della quarta e penultima parte di “Impasse Poule, 13”,  il libro  in gran parte autobiografico di Boris Zaborov, pubblicato  alla fine del 2020 dalla Casa Editrice GliOri.

Oggi, rileggendole con strazio, so con certezza che si trattava del testamento spirituale di un uomo  e di un artista straordinario, dal non facile ma appassionante percorso esistenziale, che la natura aveva con generosità dotato anche di una scrittura poetica e profonda , letterariamente impeccabile, colma di nobili echi della tradizione russa, capace di dischiudere davanti agli occhi del lettore mondi mai immaginati  e le profondità di un’anima tormentata, sempre alla ricerca di risposte. E di dare una singolare chiave di lettura di un’opera pittorica assolutamente unica, capace , è stato detto,  “di unire le diverse epoche”, il passato e il presente. Nella vecchia fotografia  la sua creazione aveva trovato la linfa viva capace di  farlo diventare, a 45 anni, il pittore che aveva sempre desiderato, ma non aveva potuto essere, stretto com’era dalle maglie della censura sovietica.

Boris Zaborov ha lasciato questa terra il 20 gennaio scorso e la notizia, così dolorosa, ha fatto fluire una miriade di ricordi. Perché la prima volta che lo incontrai fu nelle sale del Museo Puskin di Mosca, nell’ormai lontano 1995.

Spesso  gli incontri importanti sono casuali e così avvenne quella volta: in una delle mie visite al museo moscovita di arti figurative occidentali, venni catturata dalle opere esposte in una mostra temporanea. Mi trovai immersa in un mondo fatto di volti e di lontananze, di atmosfere rarefatte confinanti con il sogno eppure profondamente reali: era come se gli occhi sgranati di fanciulle e bambini, vecchi e uomini venuti da lontano incontrassero i miei in un colloquio muto eppure  intenso e coinvolgente. Non riuscivo a staccarmi da quegli sfondi di nebbiosa luminosità, avevo l’impressione di intraprendere un viaggio nel tempo verso le figure come uscite da vecchie, dimenticate fotografie color seppia e che, malgrado la loro staticità, parevano desiderose di sfuggire all’oblio, balzando fuori dalla tela. Incontro a me.

Dalla gentile signora alla cassa seppi che Boris Zaborov era un artista emigrato quindici anni prima a Parigi, di cui si teneva la prima mostra in Russia. Era anche una brava persona, aggiunse, chiedendomi di attenderla un attimo: tornò poco dopo con un magnifico catalogo, uno di quelli a lei lasciati dal pittore per farne dono a chi avesse dimostrato interesse per i suoi lavori.

Da quel giorno sono trascorsi anni, decenni,  viviamo ormai in un altro secolo ed io ho avuto la fortuna, dopo un primo incontro a Verona, città frequentata dall’artista in quanto vi stampava opere grafiche e cataloghi, come “Lo sguardo della memoria” del 2004, di fargli più di una volta visita a Parigi, nel suo angolo incantato - di cui anche Tonino Guerra poeticamente scrisse - lo studio, il cui indirizzo, Impasse Poule, 13,  ha dato non a caso il titolo al prezioso libro da lui lasciatoci  in eredità insieme alle sue grandiose, spesso enigmatiche  opere. Una di queste, Autoritratto con nudo,  è alla Galleria degli Uffizi di Firenze,  ma molti sono i prestigiosi musei in Europa e non solo, ad avere accolto Boris Zaborov fra i grandi della pittura.  Senza parlare del monumento Alla Scrittura, legato alla sua scultorea bronzea “biblioteca ideale”, che ha trovato spazio nel campus dell’Università Technion di Haifa.  

Il libro di Zaborov, una “Narrazione”, sottotitolo a cui l’autore teneva molto, è diventato l’ulteriore fil rouge che nel 2020 mi ha  più strettamente legato a lui e a Irina Basova, straordinaria, dolce e forte compagna di vita, la cui presenza discreta e poetica attraversa tutto il libro, e alla quale sono dedicate pagine indimenticabili, intessute di passione e di ammirazione, d’infinita riconoscenza.

Molto è stato scritto sull’opera di Boris Zaborov dai maggiori storici dell’arte, a cominciare dalla defunta Marina Bessonova, conservatore del Museo Puskin, e poi, fra gli altri, da Pascal Bonafoux, comparso, insieme a Evgenij Evtusenko, anche in un bel film  a lui dedicato, “Alla ricerca del tempo perduto“, titolo quanto mai calzante per l’avventura umana e artistica del protagonista. Più di recente  di lui si sono occupate Giovanna Giusti, curatrice della sua ultima mostra fiorentina, e Cristina Acidini, direttore dell’Accademia delle arti del disegno di Firenze, che nel 2018 ha accolto l’artista fra i suoi accademici. Le sue profonde riflessioni introducono, per desiderio dell’autore, il libro Impasse Poule 13; di Zaborov la studiosa, in occasione della mostra, aveva scritto: “ la sua arte irradia  una potenza inventiva e stilistica che davanti a ogni sua opera richiede  una sosta, un pensiero, un ascolto di echi risonanti in spazi interiori”. E ancora: “cultore della figura e sobrio narratore, Zaborov evoca i volti, le persone, gli animali, gli oggetti che ritrae in pittura attraverso il filtro della nostalgia, nebuloso e dorato come il pulviscolo che si agita in una lama di luce, nella solitudine di una camera nella controra estiva...” .

Nell’ottobre scorso Boris Zaborov aveva compiuto 85 anni. E il regalo più atteso, il  libro pubblicato nella lingua del paese, l’Italia, da cui la sua arte era stata profondamente nutrita (basti pensare al magnifico quadro Quattrocento-(Omaggio a Piero della Francesca), in cui rivisitò, trasferendola nella nostra epoca, La flagellazione di Cristo, ma anche alla pagine dedicate a Masaccio e al Vittore Carpaccio della veneziana Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, ebbene questo dono arrivò  con qualche giorno di ritardo, dandogli tuttavia infinita gioia. Forse una delle ultime, prima che “giungesse l’ora, ineluttabile”, di riunirsi a tanti amici scomparsi, con i quali prima di partire per l’emigrazione si era ritrovato per la cena d’addio che in quegli anni di regime sovietico poteva e sembrava essere davvero definitivo.

 “L’ora – come Boris Zaborov aveva scritto -  di andare in prima linea”.

Claudia Sugliano 

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