Ma dove vai se queer non sei? Venezia: Al via la 60ma edizione della Biennale

Foreigners Everywhere, Stranieri ovunque: il titolo della 60ma edizione della Biennale. Non una gran novità per una città come Venezia, con una storia millenaria di apertura al foresto. Basta osservare l’architettura di questa Costantinopoli d’Occidente, dove il gotico fiorito giunto dal Nord si armonizza con le losanghe e le cupole d’oro di Bisanzio e dell’Islam. Nei secoli, è stata crocevia di popoli e culture che nella Serenissima trovavano accoglienza curiosa, intelligente; un po’ ladra di idee a volte, di opere d’arte e merci quasi sempre.

Doveva arrivare il brasiliano Adriano Pedrosa, il curatore di quest’anno, a proporre quanto noi veneziani abbiamo nel dna. E sia, armiamoci di scarpe comode, pazienza, buona disponibilità d’animo e andiamo alla festa. Ai Giardini, alle Corderie, fra ricevimenti esclusivi in palazzi patrizi e spritz in squallidi spazi underground, in laguna si esulta ovunque e l’atmosfera è elettrizzante. Come sempre, nei tre giorni della preview. Incontriamo la consueta variegata umanità che popola l’evento, gente che più che andare a vedere mostre va a farsi vedere (e fotografare) alle mostre. Le solite ciarliere, cinguettanti, fintamente entusiaste, o altrettanto fintamente indignate, persone. Ognuno a recitare la sua parte nel grande circo del più importante evento internazionale dell’arte contemporanea.

Intrigante di per sé il tema dello straniero, se solo lo sguardo del direttore delle arti visive fosse riuscito ad andare oltre le mode del momento. Anziché ancorarsi alla parola tormentone queer, forse, un riferimento all’Ulisse di Omero - straniero in terre straniere – avrebbe contribuito ad ampliare la visuale. Ci saremmo accontentati anche di un rimando - in omaggio alla città che ospita la manifestazione - a un altro grande viaggiatore verso luoghi sconosciuti come Marco Polo, a 700 anni dalla morte. Macché. Avremmo pure apprezzato, dopo 123 anni dalla nascita della psicanalisi, un ulteriore approfondimento sul concetto che in fondo ognuno di noi, per via dell’inconscio, è estraneo in primo luogo a se stesso. Niente da fare. Qui, per esporre e vincere i premi, i prerequisiti - nobili in teoria - sono: provenienza dal terzo o quarto mondo, appartenenza alle categorie degli emarginati, dei poveri, degli oppressi.

Purtroppo, però, la pietas umanitaria di Pedrosa scivola nel conformismo degli anticonformisti e vi si adegua. Per essere invitati alla sua biennale, sembra proprio che si debba aver militato in collettivi, meglio se femministi. Una necessità pure dichiararsi fluidi, strizzare l’occhio alle norme comportamentali LGBTQIA+ (lesbian, gay, bisex, transgender, queer, intersexual, asexual). La qualità artistica? Un gradito optional, se capita. Prevalgono le dichiarazioni di intenti: recriminazione anticolonialistica, protesta in stile gay pride, o documentaristico, proposta di opere folkloristiche che paiono arrivare dall’artigianato maori, nigeriano o carioca. Arazzi, ricami, paccottiglia varia, il cui valore è dato pressoché esclusivamente dall’etnia, o dagli orientamenti sessuali non tradizionali di chi li ha realizzati. Tanto colore, tanta pittura - un pregio se non fosse per la maggior parte raffazzonata, approssimativa, carnascialesca.

Ricorderemo questa edizione del 2024, nel complesso, come una frastornante Babele. Sì, stranieri ovunque, perfino noi a casa nostra. C’è da dire che almeno il titolo l'abbia azzeccato questo strano (o queer o che?) direttore.

L'Autore

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Nella sua geografia dell’anima ha Venezia, la città natale, nel cuore e la Versilia eletta a buen retiro. Quando nell’adolescenza le chiedevano che cosa avrebbe desiderato fare da grande, rispondeva sicura: viaggiare e scrivere. Così, per raggiungere lo scopo, si è messa a studiare lingue prima, lettere poi.  E sono oltre 30 anni che pubblica romanzi, saggi, scrive articoli, gira per il mondo. Ci sono tre cose - dice - di cui non può fare a meno: il mare, la scrittura, il caffè. Ah: è il direttore responsabile di AW ArtMag.

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