Poeta della materia

Catanzaro. Al MARCA e al Complesso monumentale di San Giovanni riflettori puntati su Max Marra

Nell’ampia retrospettiva 115 opere ripercorrono la sua lunga carriera. In esposizione anche le serie delle Pance ferite e de Il ghetto

Calabrese di nascita e comasco di adozione, Max Marra fa ritorno in patria con due mostre contestuali allestite nei due principali poli museali della città di Catanzaro: il MARCA-Museo delle arti di Catanzaro e il Complesso monumentale di San Giovanni. Moltissime le opere in mostra fino a fine estate.

Il MARCA ospita fino al 7 settembre “L’inquieta bellezza della materia”, una antologica curata da Teodolinda Coltellaro, che ripercorre l’intera produzione di Marra qui condensata in un corpus di 115 opere. Numerosi i disegni, tecnica cara all’artista, di cui molti eseguiti nei primi anni ’80, quando il segno emulava l’espressività cruda e le atmosfere acidule delle avanguardie tedesche, in particolare del Die Brücke, cui Marra si avvicinava vertiginosamente in quegli anni.

Il fulcro principale della sua ricerca è però rappresentato dalla materia; sia essa colta nella sua fisicità e nelle sue infinite potenzialità formali, o recuperata da rifiuti e materiali di scarto, oppure percepita nell’estetica di oggetti comuni dai quali l’artista si lasciava affascinare sin da bambino. Come le “gigantesche, potenti e nere locomotive, meravigliosi monumenti d’assemblaggio meccanico di straordinaria bellezza; incredibili condensati di vissuto che sembravano installazioni, altari evocativi dell’uomo”, o come “la spiaggia che si offre allo sguardo con l’antica sapienza di gesti con cui i pescatori adoperano pece calda e stoppa, riparano reti e barche, risanano vele che poi tendono al vento” (T. Coltellaro).

Sul finire degli anni ‘80 Max Marra si accosta alle forme poetiche del linguaggio: fondamentale in questo senso il rapporto con il poeta Luigi Bianco e l’artista Nicola Frangione, con i quali fonda nel 1986 il movimento Osaon che mescola pratiche legate all’arte con la poesia, il teatro, la musica, la gestualità del corpo. Grazie all’esperienza di Osaon, l’artista giunge a un’intima meditazione sulla condizione dell’uomo e sul senso profondo dell’esistenza, una visione antropologica la sua che diviene via via più cupa fino a ristagnare nell’angoscia e nel turbamento derivati dalla consapevolezza del destino ineluttabile dell’uomo.

Da queste riflessioni nasce la serie delle Pance ferite che prendono forma a partire dai primi anni ’90: superfici rigonfie, strati sovrapposti di brandelli colorati apparentemente armonici, ma deturpati da vistose lacerazioni e cicatrici indelebili, brutalmente sigillate da fili chirurgici. Nonostante l’efficace resa visiva del dolore, le sacche epidermiche sono in realtà esplose, svuotate dal marciume e dalla malvagità del mondo che si annidano sotto pelle, e che l’artista assurto a chirurgo/sciamano ha provveduto a estirpare con un rituale di purificazione, concluso nell’atto simbolico della sutura. Le Pance ferite di Max Marra non sono altro che organici vasi di Pandora svuotati e riconvertiti a contenitori di speranza per l’uomo, finalmente consapevole di poter essere curato fisicamente, moralmente e spiritualmente.

Dopo anni di ricerca a cavallo fra pittura e scultura polimaterica, negli anni 2000 Max Marra recupera il disegno figurativo e realizza alcune opere dedicate al dramma della Shoah e al popolo ebraico che vengono raccolte sotto il titolo Il ghetto.

Oggi, cinque di queste opere fanno parte della mostra “Chagall. La Bibbia” allestita nel Complesso Monumentale di San Giovanni e curata da Domenico Piraina, direttore del Palazzo Reale di Milano. Con l’obiettivo finale di celebrare la memoria e il patrimonio storico-culturale della comunità ebraica di area calabrese, la rassegna racconta Marc Chagall e il suo rapporto intimo e profondo con la Bibbia, su cui il pittore russo ha lavorato per gran parte della sua vita, scegliendo di raccontare non tanto le vicende narrate, ma alcuni personaggi principali degli episodi biblici.

Chagall riteneva la Bibbia “la più grande fonte di poesia di tutti i tempi” e proprio nel segno della poesia entra in gioco la pittura di Max Marra, in chiusura all’esposizione. La serie de Il ghetto è infatti idealmente analoga alle Pance ferite per le tematiche trattate, che qui l’artista esaspera ulteriormente fino a teorizzare lo squarcio psicologico dell’uomo destinato a subire le ingiustizie del mondo e la malignità della società e di altri esseri umani. Ciò si riflette nei disegni in una spazialità claustrofobica, fatta di edifici delimitati da sbarre alle finestre, orizzonti negati dalle sagome inquietanti di gigantesche fabbriche tossiche, scenari lugubri e carichi di terrore che comunicano oppressione, desolazione, paura.

Ma l’ingrediente poetico ribolle in profondità, ed ecco che Marra controbilancia la narrazione di un mondo apparentemente condannato con elementi positivi: il colore rosso dei tetti delle case, caldo e confortante ma ambiguo se associato al colore del sangue o della violenza; le luci isolate giallo intenso che evocano l’intimità di focolari domestici forse non ancora scardinati; o certi simboli della spiritualità ebraica, celati all’interno delle scene, che sembrano alludere a una promessa di speranza, fede e carità.

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