Il fantasmagorico mondo di Arturo

È mancato a 97 anni Schwarz

Scrittore, editore, gallerista, ha segnato la storia culturale del ‘900. Amico dei surrealisti, rimarrà trotskista fino alla fine

 

Se n'è andato a 97 anni Arturo Schwarz.

Storico dell’arte, saggista, docente, scrittore e poeta. Mercante, collezionista d’arte, gallerista, editore. Personalità in costante evoluzione, sensibile cultore del sapere, spirito oscillante fra materialismo e immaterialismo. Arturo Schwarz fu tutto questo e molto di più. E resta oggi una delle figure più dinamiche, interessanti e autorevoli del ‘900.

Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1924, da padre tedesco e madre italiana, visse in Egitto fino al 1949: in quei primi venticinque anni di vita, nella sua città natale fondò una libreria e una casa editrice, chiari prodromi di una esistenza irriducibilmente devoluta alla philosophía, nel senso greco di amore per la conoscenza.

Fino al ’49 dicevamo, poiché in quell’anno venne esiliato dall’Egitto per avere fondato la sezione egiziana della IV Internazionale istituita da Lev Trotsky, in nome del quale venne internato e torturato per diciotto mesi nel carcere di Hadra.

Con Trotsky Schwarz ebbe un legame fortissimo per tutta la vita (tanto da conservarne il cimelico bigliettino da visita, che amava mostrare con tenerezza ad ogni intervista), non solo per l’esperienza comune dell’esilio e per le idee politiche, ma anche per l’affinità intellettuale: entrambi, in tempi diversi, trovarono nel poeta surrealista francese André Breton una guida fondamentale per lo sviluppo di una personale concezione dell’arte contemporanea che in certo modo avrebbe segnato il panorama culturale del ‘900.

Arturo Schwarz conobbe André Breton poco dopo l’assassinio di Trotsky in Messico, ma lo incontrò a Parigi solo dopo la liberazione da Hadra: fu un momento fondamentale per Schwarz che grazie al poeta si avvicinò agli artisti del Surrealismo e del Dada, stringendo legami e acquistando numerose opere di figure chiave della scena culturale come Duchamp, Man Ray, Jean Arp, Masson, Tanguì, Magritte, Tzara, Max Ernst, Pollock.

Negli anni ‘50, il fermento artistico e intellettuale spinse Schwarz a riavvicinarsi all’editoria, e ricostruire in Italia ciò che aveva perduto in Egitto dieci anni prima: aprì una libreria e una casa editrice con la quale pubblicò libri difficilmente commerciabili, giovani poeti e saggistica, stampando autori come Trotsky naturalmente, Breton, Mario Luzi, Ungaretti, Quasimodo e altri.

Come dimenticare il polverone sollevato dalla pubblicazione nel ’56 de “La Rivoluzione tradita” di Trotsky, con l’indimenticabile oltraggio a Stalin campeggiante su fascetta gialla: «Stalin passerà alla storia come il boia della classe operaia». Togliatti si imbestialì al punto che la casa editrice chiuse i battenti e la libreria sfiorò il fallimento. E così Schwarz decise di rispolverare il proprio tesoro d’arte e rimise in circolazione opere di Duchamp (che nel frattempo si era ritirato) e altri artisti delle correnti d’avanguardia, dando fra l’altro avvio a importanti fasi di rilettura critica. Dalle ceneri di una libreria rivoluzionaria era (ri)nato il gallerista Arturo Schwartz.

Nemico dichiarato della parola “collezione”, che rispecchiava decisamente troppo la realtà di un mercato dell’arte dominato dalla logica del denaro, Schwarz da sempre e per sempre “trotskista e surrealista” non smise mai di ribadire che il suo era piuttosto un “patrimonio” che esigeva di essere donato nella sua interezza, scevro da qualsiasi aspirazione materialistica e venale. Perché la vera ricchezza risiede nell’“oro spirituale”: un Dio? Non sia mai. Per Schwarz, che fu il più irriducibile tra gli atei, Dio è un’ipotesi culturale. Piuttosto, oro inteso in chiave puramente filosofica, un concetto che Schwarz distillò dalle ricerche sulla filosofia e sulle scienze esoteriche, la Kabbala e l’alchimia cui si appassionò a partire dagli anni ‘60 e che cambiarono profondamente la sua visione dell’arte, della realtà e dell’esistenza.

Da qui la netta consapevolezza di Schwarz di non avere mai posseduto realmente ciò che aveva acquistato, ma di averlo semplicemente custodito, in attesa di una collocazione più nobilitante. Nacque così l’idea di donare l’intero corpus di opere ai Musei di Gerusalemme e Tel Aviv, alla città di Be’er Sheva in Israele e alla nostra Galleria d’Arte Moderna di Roma che solo nel 1997, dopo anni di estenuanti trattative con lo Stato italiano, poté ricevere circa 450 opere.

E in cambio? Ai musei Schwarz chiese soltanto “che le opere fossero catalogate, documentate, accompagnate da una dignità scientifica” poiché “è il solo modo per far sopravvivere l’arte”.

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