Quello tsunami enciclopedico chiamato Umberto Eco
Per la nostra generazione, a cinque anni dalla sua scomparsa, Eco è stato qualcosa in più di una semplice folgorazione. Pensare che potesse esistere un letterato, un semiologo con un sapere enciclopedico e con altre mille cose dentro fu qualcosa in più di una semplice scoperta. Ed iniziammo a seguirlo nelle sue mille traiettorie, a fatica, con l’imbarazzo di chi sapeva di dover recuperare secoli di letture. Eco era sempre lì, fedele al suo profilo, informato su tutto, analiticamente, scientificamente, quasi pedantemente. Ogni suo romanzo era una scatola cinese con dentro altri mille, potenziali racconti, con la storia dei palazzi della città, con le puntuali incursioni gastronomiche, con l’avventura che si intrecciava con la fantasia e ti lasciava sospeso, sul davanzale dei tuoi limiti, capace solo di seguire le rapide di quella trama, provando solo a tenerti a galla, di fronte a quell’incalzante tsunami enciclopedico.
Totale, assoluto, planetario, difficili gli aggettivi che potessero, in qualche modo, comprenderlo, confinarlo, assemblarlo. Lo incontrai, l’ultima volta, all’Auditorium della musica a Roma, per una Festa della lettura. Sviluppò l’intensità di un dialogo ispirato e sulfureo con Stefano Bartezzaghi con il quale divideva speciali passioni calligrammatiche e cruciverbistiche. Si parlò di Atlantide, del suo ultimo libro, della storia delle terre e dei luoghi leggendari, di tutto e di niente. Eco era così, partiva verso una riflessione e poi, in corso d’opera, ne sviluppava altre cento, aggiungendo, togliendo, sminuzzando ed esaltando il pensiero. L’auditorium era stracolmo, un migliaio di persone lo ascoltavano in religioso silenzio. In prima fila, Furio Colombo ed altri compagni della sua ultima avventura editoriale, la Nave di Teseo. Parlava, giocava con le parole, le modellava a suo piacimento con un gusto infinito di incroci, di calembour, di risonanze epiche e medievali. E la gente seguiva stupita lo snodarsi dei suoi pensieri, i grovigli magici di quella mente superiore che avresti ascoltato per ore.
Alla fine, si fermò nella libreria attigua per autografare i suoi libri. Un lungo serpente di lettori attendeva il momento della dedica. Mi stupì il fatto che, in fila, non ci fossero solo italiani ma anche numerosi stranieri. Americani che privilegiavano quella fila rispetto a quella, parallela, di un importante scrittore statunitense. Un plebiscito di attenzioni di cui non ricordo repliche.
Firmava rapido ma cortese. Non si sottraeva nemmeno ai selfie dei giovani che volevano fissare quell’attimo. Fu un tributo che durò per ore. Non mostrava i suoi anni. Era di un’età indefinibile, assoluta. Non aveva vuoti di memoria, tipici della senescenza. Solo brillanti lampeggiamenti di luce creativa, fili che si riannodavano nel vuoto, per poi disperdersi nuovamente, in un perenne gioco di fuochi d’artificio che, sinceramente, incantava.
Tutti credevamo che quella mente, paradossalmente, non si sarebbe mai spenta, che ci avrebbe ancora donato articoli, polemiche, libri, analisi, storie straordinariamente vitali. Eco aveva ancora molte cose da dirci. Ma quel che ci resta, comunque, è un patrimonio immenso di parole giocate sul filo di un’ironia sottile, attraversate dallo scandaglio delle sue letture. E non ci basterà una vita a soppesarle in tutto il suo smerigliato valore.