Con questo nuovo ciclo pittorico, l’artista rende omaggio a Vittore Carpaccio e Giovanni Mansueti
Il passato può venire improvvisamente alla luce per riannodare il filo che ci lega a quella inconsapevole memoria che nutre la nostra esistenza. Può succedere allo sguardo che di fronte a un capolavoro fuori del tempo riesce a captare certe remote pulsioni custodite nell'inconscio. La mostra “Capricci veneziani” di Marco Petrus, ospitata fino al 10 aprile nei prestigiosi spazi di Ca' Pesaro a Venezia, ne è un'ulteriore prova.
LE COMPOSIZIONI CONQUISTANO LO SPAZIO DILATANDOSI SULLE TELE IN UN CALEIDOSCOPIO DI SEGNI E COMUNIONI GESTUALI
L'evento, curato da Michele Bonuomo e promosso dalla Fondazione MuVe in collaborazione con M77 Gallery, si propone come un omaggio alla rassegna di Vittore Carpaccio al Palazzo Ducale della Serenissima e ai dipinti di Giovanni Mansueti esposti nelle sale delle Gallerie dell’Accademia. Un omaggio, quello eseguito in numerose varianti da Petrus, che prende a pretesto elementi in apparenza secondari, come le righe che caratterizzavano le braghe degli interpreti dei teleri dei due protagonisti del secondo ‘400 e del primissimo ‘500 veneziano, per essere tradotti ed esaltati nell'astrazione per rimarcarne il rigore esecutivo ed esibirne una rinnovata autenticità riflessa e ribadita dall'inatteso ed esaltato frammento. Scrive in proposito Bonuomo: “I Capricci sono il punto di vista che Marco Petrus ha soprattutto sulle vicende che hanno fatto grande e imprescindibile la tradizione della pittura italiana. Quella stessa che oggi gli ha permesso di trovare frammenti di contemporaneità nei 'teatri' affollati di Carpaccio e Mansueti...”. Una lettura ribadita in catalogo dalla responsabile di Ca' Pesaro Elisabetta Barisoni quando afferma che “il ciclo Capricci avvolge il visitatore in un universo di textures ripetute e regolari dove si intravedono piccole variazioni e richiami iconografici ma i cui veri protagonisti sono linea e colore. Il risultato è una composizione astratta, monumentale nella scala ma non retorica e, alla fine, anticlassica”.
Le composizioni dell'artista milanese conquistano lo spazio e si moltiplicano, talora dilatandosi ampiamente sulla tela, per offrici un caleidoscopio di segni e di comunioni gestuali che conservano la magica percezione di quelle origini. D'altronde, Alberto Burri affermava che se non avesse ammirato i capolavori custoditi nelle chiese di Città di Castello, di Urbino e di Perugia, non sarebbero nati i celebri suoi “sacchi”. I conti, dunque, tornano ancora una volta.