Exit-Esistenza è il testo teatrale su cui è basata la mostra
Una personale di Gea D’Este, a cura di Giovanni Bianchi, sul testo teatrale Exit-Esistenza di Cristiana Moldi-Ravenna (Supernova, 2020) fino al 17 giugno. Nove tavole numerate si sviluppano progressivamente in sequenza orizzontale, ognuna con una propria identità grafica. È un viaggio visivo scandito da una sagoma che ricorda quella di una freccia, di un corpo contundente mal definito, dai contorni slabbrati, che vuole indicarci qualcosa, ma che è costretta a continui ripensamenti lungo una rotta sfuggente. Di stanza (tavola) in stanza (tavola) la sagoma transita mettendo “subito in chiaro che l’uscita dall’esistenza è molteplice e che le strade da percorrere possono anche essere antitetiche”, come scrive il curatore.
Tutto parte da lontano da un’esistenza che non è più, l’esistenza di Lina, madre di Cristiana Moldi-Ravenna che, costretta a letto da una lunga malattia, mette insieme parole tra realtà e dissennatezza. Sembra dia vita a una comunicazione nuova, a un idioma primordiale con precisi ritmi musicali e accentazioni. La figlia ne fa un testo letterario cogliendone le potenzialità poetiche rivoluzionarie e l’artista ne fa altro ancora ponendo al centro della sua riflessione il processo trasformativo indotto o consapevole “lo sconquasso che non è solo personale ma metafora collettiva”, come spiegherà successivamente nel corso di una conversazione (Dialoghi sull’espressione, 2023) con l’autrice del testo.
Le sagome acuminate risaltano entro riquadri neri, sul fondo chiaro del cartone, talvolta accompagnate da inserzioni di elementi lineari rossi incollati e dalla scrittura, anch’essa elemento grafico portante. C’è qualcosa di duro, inscalfibile e insieme di morbido, struggente che corre lungo una dimensione temporale evocata, sempre labile. Così come le forme e la scrittura si fanno veicolo grafico estetico, così divengono elementi essi stessi di una lingua incomprensibile, nitida nella tragicità, connessa e indipendente dal testo teatrale. L’artista lascia imprecisa, confusa la scrittura, come fosse quella di sgualcite postille o quella di un bambino che cancella e riscrive parole nei suoi righi di quaderno scolastico, mettendo in scena così anche il “Quaderno di Rodolfo”, che lei stessa ha recuperato tra i rifiuti tanto tempo fa. Una scrittura piena di ripensamenti, di correzioni, confusa come la mente di Lina o quella di un’immagine mal riuscita dove si nasconde un’idea di sublime.
La sequenza mette in scena le dimensioni umane, sentimenti tragici, senza che prendano mai il sopravvento, riassume lo spazio e il tempo che esalta l’inaspettato e l’incontrollabile. Esplora le immagini, i suoni, i ritmi in grado di evocare l’identità sfilacciata di una donna sperduta in una cultura che un poco alla volta prende altre connotazioni. Dietro c’è un’altra esistenza ancora, quella di una figlia che inchioda la vita prima che possa svanire.
Dalle prime incursioni nell’ambito dell’arte, e siamo negli anni ‘60, Gea D’Este non ha smesso di sperimentare. Una sperimentazione mai svincolata dal contesto politico sociale, da quello che arrivava d’oltreoceano e specialmente dalle nuove possibilità espressive dei materiali industriali, di scarto o semplicemente di recupero. L’impostazione mentale rigorosa, acquisita con l’attività di illustratrice scientifica al Museo di scienze naturali di Venezia, dialoga con la spregiudicatezza delle sperimentazioni artistiche, dando vita a una stimolante sintesi dove coesistono, in entrambi gli ambiti lavorativi, precisione e libertà. È un pensiero complesso il suo, messo insieme per sommatorie e sottrazioni, che si confronta con sensazioni forti dell’effimero, con le trasformazioni naturali di cose e oggetti, di luoghi, di contesti temporali e spaziali. Ne conseguono il senso di precarietà, di alterazione e destabilizzazione che imprimono quel marchio caratteristico a ogni suo lavoro, fatto di associazioni tattili e metaforiche anche minimali. Il lavoro di Gea D’Este non dà risposte, pone piuttosto quesiti e, come l’esistenza, procede tra impalpabili, inafferrabili interferenze. L’esperienza fenomenologica tempo-spazio, gli stereotipi degli strumenti classici del far pittura perdono sostanza, i lavori chiedono partecipazione, rischio, abbandono delle consuetudini per poter transitare lungo un percorso estetico mai pianificato a priori.
Galleria ARKÈ
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