Tre le grandi mostre che meritano una riflessione
Una mostra che dalle prospettive davvero rosee che purtroppo non ha mantenuto le aspettative. La curatela di Fischli doveva essere un valore aggiunto a una fondazione che difficilmente manca il bersaglio in materia di esposizioni. Tuttavia, per quanto il contributo del curatore svizzero sia stato ineccepibile, le opere hanno dimostrato una qualità non sempre all’altezza. al primo piano è stato propedeutico il modello in scala ridotta della mostra al piano superiore. Definito dallo stesso Fischli “una scultura di una mostra di pittura”, il plastico è riuscito nell’intento di fornire una visione organica e coerente di cosa significhi realizzare un progetto in cui l’opera vera è propria è l’esposizione stessa. Fischli analizza 150 anni di pittura e le 10 sale tematiche riassumono i principali momenti di frattura di questo arco temporale conducendoci alla fatidica ed eterna domanda: la pittura è morta? Periodicamente si ripresenta questo dilemma ma ormai nessuno gli presta più attenzione. La pittura non è mai morta ma anzi, gode di ottima salute (la mostra successiva è proprio su un pittore contemporaneo). Il curatore ci mette comunque di fronte alla questione e fa bene a farlo. Repetita Iuvant.
Proseguendo con l’analisi, i titoli delle sale sono azzeccati e la selezione delle fratture ancor di più. Peccato per gli artisti che laddove fossero storicizzati, non sono stati rappresentati da opere molto significative, anzi, spesso da esperimenti sconosciuti ai più. Ovviamente ci sono diverse eccezioni che hanno garantito qualche minima soddisfazione al pubblico: ad esempio lo splendido rotolo di carta industriale di Pinot Gallizio, Méta-Matic N.6 di Jean Tinguely, le opere di Walter De Maria, Carla Accardi, John Baldessari, Pino Pascali e infine il collage di Kurt Schwitters.
Il vero punto dolente è stata la selezione degli artisti dei giorni nostri. Tralasciando il fatto che buona parte di essi sono talmente poco noti da risultare degli intrusi in mezzo ai giganti sopracitati, gran parte delle loro opere sono senza anima. Si può sopportare l’artista mediocre che punta alla sufficienza, ma gli epigoni stanchi che mettono in scena il già fatto sono davvero tristi. Riconoscere da metri e metri di distanza Vedova, Rothko, Kounellis e Jasper Johns e poi leggere nomi impronunciabili non è gradevole. Sono convinto che una mostra con i veri artisti di cui si sentiva l’eco ad ogni sala sarebbe stata da capogiro.
Questa recensione non vuole essere un deterrente, tutt’altro. Vuole essere un invito a visitare la mostra con una maggiore consapevolezza. Raramente una mostra merita di non essere visitata e in questo caso vale la pena fare un salto a Ca’ Corner della Regina per il luogo in sé, per ascoltare le parole del curatore nel magnifico video in cui racconta la nascita del progetto e per gustarsi qualche capolavoro.
Stop Painting
Fondazione Prada, Venezia
A cura di Peter Fischli
Fino al 21 novembre 2021
Il rapporto di amicizia che legava Georg Baselitz ed Emilio Vedova è ormai cosa nota. Era il 1963 quando avvenne il primo incontro, a Berlino. Vedova era nella città, ancora divisa dal muro, per una permanenza che durò circa due anni e che diede alla luce il celebre Absurdes Berliner Tagebuch ’64. Nonostante l’intenso lavoro, notò tra i tanti artisti emergenti la presenza di un giovane talentuoso di nome Georg Baselitz. Inizialmente era un incontro artistico, poi divenne stima reciproca e infine amicizia. Baselitz ha sempre onorato rapporto e anche dopo la scomparsa di Vedova, nel 2006, ha continuato a sostenere il suo lavoro dedicandogli mostre e curandone lui stesso diverse. Gli ha dedicato un ciclo di opere alla Biennale di Venezia del 2007, la mostra Baselitz-Vedova a Salisburgo nel 2015, un’altra l’anno successivo al Museum Küppersmühle di Duisburg e una personale nel 2019 ai Magazzini del Sale a Venezia. Ora, torna nel medesimo luogo lagunare per proporre una personale con 17 opere che omaggiano il suo caro amico attraverso una serie di tele dipinte “alla maniera di Emilio”. Tutte della stessa misura, esposte alla stessa distanza a creare un corridoio in cui sulla sinistra si trovano le opere, a mio avviso, più convincenti, dipinte secondo lo stile di Baselitz anche se con un’evoluzione che viene spiegata efficacemente da Fabrizio Gazzarri.
Le figure dipinte da Baselitz annunciano una progressione verso drammatiche sparizioni, figure che si stanno smaterializzando, dissolvendosi tra intense onde espressive, quasi fossero dipinte sull’acqua (veneziana?) in un lento ritorno all’indistinto, alla pura luce.
Sulla destra trovano collocazione opere alla maniera di Vedova, con colori però più dolci e meno contrastati, con pennellate meno incisive. I titoli Vedova spegni la luce e Vedova accendi la luce dovrebbero fornirci una chiave di lettura e guidarci verso la comprensione. In realtà ci fanno soltanto sorridere.
Questo non toglie nulla alle indubbie qualità artistiche di Baselitz, ma rende palese come la sua cifra stilistica sia tutt’altra e mantenga una distanza siderale da quella dell’amico. Avrei preferito le tele di uno e dell’altro esposte a specchio lungo tutta la sala, piuttosto che vedere Baselitz e un finto Vedova. L’omaggio lo concepisco se riesco a vedere le rispettive identità dell’autore e dell’omaggiato, ma qui non vedo nessuno dei due. Per quanto riguarda l’allestimento nulla da obiettare, pulito e ben scandito. Illuminazione perfetta.
Accorgimento per chi la volesse visitare: se avete visto la personale di Baselitz alle Gallerie dell’Accademia a Venezia in occasione dell’ultima Biennale...dimenticatela. Altrimenti vi risulta difficile apprezzare questa esposizione.
Baselitz - Vedova accendi la luce
Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Magazzini del Sale, Venezia
Fino al 31 ottobre 2021
Reputo questa mostra la più interessante in corso attualmente a Venezia. Un prodigio per qualità di opere, rigore scientifico e ponderazione nell’allestimento. Questa esposizione ha richiesto oltre un decennio per reperire i manufatti etruschi, diversi dei quali frutto di sequestri e restituzioni, che ora si trovano esposti a confronto con le opere del pittore originario di Berlino. Si inizia dalle opere del 1928, anno in cui risale la visita del maestro al museo di Villa Giulia a Roma, in cui subì il fascino dello spirito etrusco. In quegli anni molti pittori europei studiavano i reperti egizi o l’arte primitiva africana, erano pochi quelli che si rivolgevano alla scultura etrusca. Campigli, seppur non fosse nato in Italia, rintraccia in questa atmosfera l’arcaica linfa vitale da cui si sviluppò successivamente la cultura romana. Da quel momento, la sua ricerca si è orientata verso il recupero di impianti iconografici che nei successivi 4 decenni sono stati gradualmente semplificati giungendo a silhouette elementari ribattezzate “donne clessidre”. Il ventaglio cromatico si è aperto, nei primi anni Sessanta, ai viola, ai verdi e agli azzurri ampliando l’iniziale gamma cromatica limitata alle tinte terrose. Colore e forma hanno seguito direzioni di sviluppo contrarie, rendendo ogni decennio unico e riconoscibile. In mostra vanno segnalate l’opera di apertura “Zingari” (1928) che è stata utilizzata come volto pubblicitario dell’intera esposizione, “Piccolo concerto” (1936) e infine l’opera più grande di oltre 6 metri quadri “Il villaggio” (1957). L’allestimento risulta chiaro, pulito, funzionale e rispettoso dell’edificio storico. Consiglio vivamente il catalogo per la qualità dei contributi critici.
Massimo Campigli e gli Etruschi
Una pagana felicità
Fino al 30 settembre 2021
Palazzo Franchetti - Venezia