C’è un rebus nel mondo dell’arte di difficile risoluzione. Ed è un tema appassionante, straordinariamente importante e decisivo nell’incrocio tra la produzione artistica e la sua commercializzazione. Conosco, da molti anni, artisti, galleristi, collezionisti. Ne interpreto, in molte occasioni, il percorso, la fantasia, lo schema di gioco. Ma hanno, fondamentalmente, un tratto direi comune, per certi versi insostituibile. Vedono transitare più o meno costantemente il denaro che circola nel mondo dell’arte, senza riuscire a trattenerlo, impegnati come sono in una giostra infernale che, paradossalmente, mette tutti alle corde.
L’artista è la prima tappa di questo processo. Crea, produce talvolta con un certo affanno le sue opere ma non è un ruolo facile. Non sempre la creatività ti soccorre. Da qui la nascita di straordinari periodi compositivi, frammista a fasi più complesse, fatalmente più legate ad opere seriali, meno impegnative. Ma la fantasia è un reagente strano. Ti porta inevitabilmente ad isolarti, a scalpellare la tua psiche con disagio, talvolta a condizionare anche i rapporti e le tue difficili scelte famigliari. E poi, c’è la necessità di isolarti in uno studio, di avere spese oggettive legate alle tele, ai colori, ai pigmenti, realtà che, anche alla luce di questi anni difficili che attraversa l’arte, finiscono per limitare oggettivamente le loro entrate, creando un cortocircuito difficile da governare.
Su un piano solo apparentemente diverso i galleristi, impegnati oggi all’interno di una profonda riconversione che vede limitare al minimo gli eventi, con la necessità di potenziare la propria presenza sul web, sulle tv, sulle riviste del settore. Un apparato solido, non facile da gestire su tutte le piattaforme, necessariamente dispendioso. Perché il gallerista vive anche di opere in affidamento, soprattutto legate alle singole mostre, ma ha anche un magazzino da riverniciare costantemente con nuovi acquisti, in modo da stimolare convenientemente il mondo collezionistico o, magari, qualche suo collega interessato ad una corrente o ad un singolo artista. Ecco, quindi, un secondo soggetto costretto costantemente a reinvestire se vuole mantenersi su un determinato standard, con tutti i conseguenti problemi economici del caso.
I collezionisti, almeno in teoria, dovrebbero essere il terminale finale. Diciamo dovrebbero perché, soprattutto in questi ultimi anni, questa figura tende a proporsi in modo diverso, nuovo. Acquirente spesso ma, all’occorrenza, anche venditore magari in una delle cento case d'asta che, ormai, contrassegnano il traffico artistico della Penisola. Ecco, quindi, in fieri, un altro turnover monetario, nel quale, comunque, la parte più rilevante resta legata alle acquisizioni, con conseguente sbilancio economico.
Insomma, il rebus è davanti a noi. Se tutte le tre categorie, per reggere dignitosamente e stare sul mercato, riescono a trattenere una parte minima dei loro incassi, dove finiscono, alla fine, i soldi dell’arte? Perché in pochissimi riescono a costruirsi solide posizioni? Ma soprattutto, in quale spirale luciferina scompaiono i milioni di euro che questo sistema complessivamente produce nel Belpaese? Interrogativi stimolanti che non hanno la pretesa di aprire un dibattito ma impongono una semplice constatazione, tanto perfida quanto, per molti versi, attraente.