I musei non sono cimiteri

28 Settembre 2021

La parola a Micol Forti, direttore della Collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani

Dirige l’istituzione da 21 anni. Con l’intento, sulla scia delle parole di Paolo VI, per cui bellezza e verità coincidono

Dedito da tempo allo studio e all’analisi del processo di riconciliazione tra artisti e Chiesa indotto da Paolo VI, l’aver visto nel settembre 2011 la Sala Matisse dei Musei Vaticani con i bozzetti preparatori della Chapelle du Rosaire di Vence, in piena preparazione della Sesta Triennale d’Arte Sacra Contemporanea dell’estate 2012 nell’Antico Seminario di Piazza Duomo a Lecce avendo già individuato in Igor Mitoraj lo scultore per la mostra d’apertura della rassegna, fu l’occasione per coinvolgervi Micol Forti. L’avrei ritrovata a Lecce nel dicembre 2012 a dialogare su “Chiesa e arte contemporanea, nuovi allestimenti ai Musei Vaticani” in chiusura del ciclo “Conversazioni in Accademia” e, negli anni successivi a Venezia come curatrice dei padiglioni della Santa sede alle Biennali d’arte (2013 e 2015) e di architettura (2018).

Micol li risolse tutti nel superamento degli schemi preesistenti, con scelte critiche attente all’internazionalità delle presenze, alla pluralità delle espressioni e allo sviluppo delle nuove tecniche. Diverse le sue mostre da rammentare: “Santiago Calatrava. Le metamorfosi dello spazio” nel Braccio di Carlo Magno a Roma (2013), “In piena luce. Nove fotografi interpretano i Musei Vaticani” (Palazzo Reale, Milano, 2018) legata alla creazione del nuovo nucleo di fotografia contemporanea dei Musei Vaticani, “Gauguin Matisse Chagall. La Passione nell’arte francese dai Musei Vaticani” (Milano, Museo Diocesano Carlo Maria Martini, 2020),a cui va aggiunta la sua attenzione per “quel sorprendente universo di forme” che è l’arte africana contemporanea. Tante anche le pubblicazioni: da “Aby Warburg e la cultura italiana.

Fra sopravvivenze e prospettive di ricerca” (Mondadori Università, 2009), ad “Attraversare la storia. Mostrare il presente. Il Vaticano e le esposizioni internazionali (1851-2015)” delle Edizioni Musei Vaticani in coedizione con 24 Ore Cultura nel 2016. L’ultima curatela coincide con la rassegna “Ricucire il dolore –Tessere la speranza. La ‘Via Crucis’ di Maria Lai” a Jerzu fino al 4 settembre p.v. Al dialogo che segue, la capacità di farci meglio comprendere il suo pensiero e la sua prassi.

Che cosa è cambiato dal 23 giugno 1973 quando Paolo VI, inaugurando la Collezione d’arte religiosa moderna, richiamò l’attenzione sulla capacità prodigiosa degli artisti “di esprimere, oltre l’umano autentico, il religioso, il divino, il cristiano”, ratificando in tal modo la ristabilita “amicizia tra la Chiesa e gli artisti”, quasi sollecitata nell’Omelia del 7 maggio 1964, quando celebrando l’Ascensione ebbe a dire agli artisti: “Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione”?

Quella di Paolo VI è stata una visione e una sfida. Profondo conoscitore di arte e di teorie dell’arte fin dalla giovinezza, attore di primo piano nel dibattito estetico-teologico, appena salito al soglio pontificio nel 1963, Papa Montini capisce che è compito della Chiesa, dal suo sommo vertice, reimpostare il confronto con la cultura contemporanea, che riconosce all’arte un ruolo centrale. Il discorso in Cappella Sistina del 7 maggio 1964 e la Lettera agli artisti, documento conclusivo del Concilio Vaticano II dell’8 dicembre 1964 sono due atti ufficiali fondanti questa visione diventata un progetto. La sfida è stata quella di poter realizzare, nel cuore istituzionale della memoria culturale della Chiesa, i Musei Vaticani, una Collezione che non solo rendesse conto del rapporto tra gli artisti del ‘900 con i tempi sacri, e più ampiamente con la spiritualità e la trascendenza, ma soprattutto rappresentasse l’avvio di uno scambio da coltivare e ampliare nel futuro. Nel giugno del 1973, quando le opere raccolte in soli nove anni passano formalmente sotto la direzione dei Musei Vaticani, la sfida non è vinta. È appena iniziata. Il nucleo originario non poteva né voleva avere pretese di esaustività o di militanza critica. Doveva invece dare un segnale “ufficiale” e un sostegno concreto ad una più efficace e duratura frequentazione tra le arti, nelle sue innumerevoli forme espressive, e la Chiesa, nelle sue molteplici espressioni, funzioni e attività. Il crescente e reciproco interesse, il dialogo più serrato e maturo di questo confronto, cui assistiamo almeno negli ultimi quindici anni, ci dice che molto è cambiato e che la sfida è in parte vinta.

Per Papa Montini compito della Chiesa è il confronto con la cultura contemporanea

Trentasei sale ricche di opere eccezionali, di presenze storiche e contemporanee, di riflessioni su movimenti e periodi, di approfondimenti su alcuni artisti. Solo un percorso cronologico o anche molto di più?

Il nucleo storico della Collezione contava circa 900 opere. Oggi, a meno di cinquant’anni dalla sua nascita, ne comprende circa 9000. Tuttavia, gli spazi espositivi sono quelli destinati alla Collezione al momento della sua apertura: l’Appartamento Borgia, le sale adiacenti il Cortile dei Pappagalli e le sale sottostanti la Cappella Sistina. Un’area che permette di esporre circa 450 opere. L’estensione e la conformazione architettonica di questi ambienti pongono numerosi vincoli per la tipologia e la disposizione dei lavori da esporre. In questi ultimi anni, insieme alla colleghe Francesca Boschetti e Rosalia Pagliarani, abbiamo adottato un criterio espositivo diversificato.

A una generale impostazione cronologico-geografica, adottata tra il 2000 e il 2010, abbiamo affiancato sale tematiche e sale monografiche. Recentemente, per esempio, a seguito dell’acquisizione del grande polittico Golgota di Sidival Fila, abbiamo creato una sala dedicata al tema della Passione; mentre tra gli allestimenti monografici spiccano le grandi gouache découpé di Henri Matisse per la cappella di Vence, nella sala inaugurata nel 2010, quella dedicata a Marino Marini completamente rinnovata nel 2012, e quella di Studio Azzurro, prima videoinstallazione interattiva a entrare nelle nostre Collezioni, realizzata per il primo Padiglione alla Biennale di Venezia nel 2013 e inserita in allestimento permanente nel 2016. All’interno di un percorso museale così vasto come quello dei Musei Vaticani, sono molto importanti momenti di approfondimento, capaci di modificare il ritmo dell’attenzione, rinnovando interesse e curiosità.

Oggi, a 50 anni dalla nascita, la collezione comprende 9.000 opere

Quale il criterio fondante delle scelte effettuate nelle curatele dei Padiglioni della Santa sede nella Biennale di Venezia 2013 e 2015 e del primo Padiglione Vaticano alla Biennale architettura 2018?

La partecipazione alla Biennale internazionale d’arte e di architettura di Venezia è stato un progetto pensato, perseguito e realizzato dal Pontificio consiglio della cultura nella persona del suo presidente, card. Gianfranco Ravasi, che è riuscito nella non semplice impresa di istituire, tra i padiglioni nazionali, quello della Santa Sede. Il settore di arte contemporanea dei Musei Vaticani è stato investito della curatela scientifica anche per il ruolo di Consultore del dicastero che ricopro dal 2011. Posso dire che anche all’origine di questo progetto vi è una visione che ha portato il confronto tra arte e chiesa su un terreno storicamente dedicato all’arte e alle sue sperimentazioni più attuali, al di fuori di qualsivoglia contesto sacro o liturgico.

E quale la scrittura espositiva sviluppata in quelle occasioni?

Il cuore dei nostri padiglioni è stato offrire agli artisti uno specifico tema di riflessione e di indirizzo alla creazione delle loro opere, appositamente realizzate: la Genesi (Creazione, De-Creazione e Ri-Creazione) nel 2013; il Verbo si fece carne, dal vangelo di Giovanni, nel 2015; la Cappella nel bosco, luogo sacro e meditativo, di preghiera e di sosta, nel 2018. Le opere sono nate in stretto dialogo con gli artisti, lasciando loro completa libertà di espressione. La scelta, infatti, è partita dalla diversità delle loro ricerche linguistiche e dalla loro sensibilità estetica e poetica. Molti dei lavori – a parte le cappelle che sono visibili nel parco della Fondazione Cini all’Isola di San Giorgio – sono entrati nella nostra Collezione consentendoci di documentare la partecipazione a un evento storico, e di contribuire al processo di arricchimento e di trasformazione, già ampiamente in corso, delle nostre Collezioni.

Partendo dalla constatazione che la creatività non può, e non deve, avere limiti nelle modalità espressive, nei linguaggi e nei territori, in che maniera è possibile attualizzare le “connessioni invisibili” al centro delle riflessioni di Italo Calvino sull’arte come conoscenza? Come sta cambiando la vostra Collezione?

I Musei Vaticani – come il Louvre, il British o il Metropolitan – conservano un patrimonio immenso per epoche, culture, provenienze geografiche, tipologie di oggetti e manufatti. Sono luoghi nei quali le “connessioni invisibili” sono ovunque, attive per chiunque voglia e sappia afferrarle. In questo bosco, in cui i visitatori sono chiamati a perdersi, incontrando alberi di ogni specie e di ogni età, per poi ritrovarsi mutati e arricchiti, l’arte moderna e contemporanea ricopre un ruolo fondamentale. È impossibile collocare la nostra conoscenza e dare valore alla nostra memoria, senza aver cognizione del nostro presente, senza volerne capire i principi e i dubbi, la forza e le fragilità, senza sentirci parte attiva e non semplici spettatori. È alla luce del contesto in cui viviamo, delle domande e delle ipotesi che riusciamo a formulare, che elaboriamo anche la narrazione della storia, passata e recente. Come in ogni epoca l’arte gioca un ruolo imprescindibile nel dare voce alla complessità del nostro presente. La ricerca degli artisti, la loro creatività, necessitano di luoghi diversi per poter attivare le loro opere, rendendole parte di un processo più ampio: è un contesto che abbiamo il dovere di proteggere, promuovere e intensificare.

Ma l’arte è ancora impegno politico e sociale?

Mai come negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una penetrazione così capillare di molte forme artistiche nel tessuto collettivo, un processo che ha ampliato e amplificato i criteri identificativi di quanto le generazioni precedenti hanno definito come impegno politico e sociale. Una spinta che agisce inevitabilmente anche sulle ricerche artistiche più colte e elitarie, sempre e comunque sensibili ai sistemi comunicativi e espressivi e al ruolo comunitario, dunque sociale e politico, che ricoprono all’interno del nostro tempo.

Le partecipazioni alle Biennali di arte e di architettura di Venezia sono frutto di un progetto fortemente voluto dal Cardinale Gianfranco Ravasi

Ventuno anni di direzione della Collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani. Quali le riflessioni, i pensieri e le speranze?

Questa lunga e intensa esperienza professionale si è intrecciata con altre attività che hanno contribuito in modo determinante all’impostazione metodologica del mio lavoro. Il Dottorato di ricerca, la docenza svolta a La Sapienza – Letteratura Artistica e Museologia –, gli studi su Aby Warburg e sulle teorie artistiche ed estetiche in particolare a cavallo tra XIX e XX sec., hanno consolidato il mio interesse per il rapporto tra sopravvivenze, persistenze e innovazioni, che rappresenta il filo rosso delle mie indagini, in ambito storico. Parallelamente la lunga collaborazione con la GNAM di Roma e l’intensa attività curatoriale, mi hanno offerto l’opportunità di testare la crucialità del lavoro critico la cui ricaduta svolge un ruolo centrale anche nella professione museale. Perché i musei non sono cimiteri, come mette in guardia Paolo VI, sono viceversa luoghi vivi e pulsanti, di conoscenza e di tutela, corpi in costante trasformazione, nei quali ricerca, idee, politica culturale, obiettivi, progetti, sono in costante interrelazione e contaminazione. Avere la responsabilità di un nucleo collezionistico tanto delicato come il settore contemporaneo dei Musei Vaticani, rappresenta un onore ma soprattutto implica il dovere di perseguire il costante scambio tra passato, presente e futuro, di non dimenticare la convinzione che è all’origine del progetto paolino, ovvero che l’arte ha la capacità di intercettare il terreno in cui bellezza e verità convivono.

 

L'Autore

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Dai primissimi anni ’60 lo trovi a raccontare l’arte (molto spesso anche i suoi - dell'arte - tanti rapporti con l’esercitata scienza) e a colloquiare con gli artisti. Lecce, Bologna e Urbino i luoghi della formazione. Roma, Torino e Napoli quelli del fare. Libero e creativo, ha perso il conto dei buchi su una tela, ha rotto un bicchiere napoleon liberando la mosca prigioniera, ha vissuto il ’68 e dialogato sul concetto, ha pieno di parole un Calendario senza fine, ha dato alle fiamme cavalli di cartapesta su una pira, e… Trentacinque anni fa rammentando Minotaure ha inventato “ARTE&CRONACA”.

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