L’occasione dell’imminente mostra di A.B.O. al Castello di Rivoli per un intenso dialogo fra i due amici/critici
L’annunciata e imminente apertura di “A.B.O. THEATRON. L’Arte o la vita”, la mostra, organizzata dal Centro di Ricerca Castello di Rivoli CRRI in collaborazione con il Dipartimento Curatoriale, che dal 17 maggio alla fine dell’autunno, occuperà gli spazi del Castello in una sorta di omaggio/ riflessione su Achille Bonito Oliva, che ha donato il proprio Archivio al succitato CRRI, innesca in me un flusso inarrestabile di considerazioni/memorie molte delle quali personali (non fosse altro che per una frequentazione che, sviluppatasi in gran parte tra la fine degli anni ‘60 e i primissimi anni ‘70, in quel nomadi smo che mi aveva portato da Bologna a Roma a Torino a Milano e infine a Napoli, si è poi consolidata negli anni, pur con le ovvie, logiche e molteplici dilazioni temporali) e, al tempo stesso, conferma e ribadisce quella sorta di strategia comportamentale del critico d’arte salernitano (ma anche poeta, docente, etc.) sulla quale mi ero, più volte, soffermato. Il che vuol dire, forse, raccontarsi. Ma, anche e ancor più, cercare di riannodare le fila di un comune tempo creativo che ci appartiene, fatto di intuizioni, di trasgressioni, di riprove e di conferme.
"L'artista è il mio nemico più intimo"
A partire, nel 1967, dal casuale incontro bolognese con le 34 poesie di “Made in Mater” stampate su schede singole numerate dall’editore Sampietro, ma ancor più dalla quotidianità serale del maggio 1968 vissuto per il “Teatro delle Mostre” nella Galleria “La Tartaruga” al 3 della romana Piazza del Popolo con “i più noti artisti degli anni sessanta” (Fioroni, Marotta, Ceroli, Mambor, etc. e quindi Bussotti, Balestrini e Parise in un’evidente e leggibile “oltre”) nell’esercitare il rapporto tra arte e teatro, vivendo quel flusso temporale che va ben oltre l’attimo della percezione per divenire spettacolo. Documentato, poi, nel volume omonimo di Marcalibri/Lerici Editore, con il testo di Maurizio Calvesi e le didascalie di Achille Bonito Oliva a esplicitare le venti mostre/ interventi/azioni. E quindi ritrovarsi nel giugno di due anni dopo nel Palazzo Ricci di Montepulciano per “Amore mio”, la sua prima vera manifestazione curatoriale, oltre che l’inizio di una sorta di scelta poi ri/utilizzata che conferiva allo spazio della mostra e al suo catalogo (non più guida e/o didascalia, ma vero e proprio strumento di analisi) lo status di territorio autonomo, palesando altresì l’ironia del critico nel riconoscersi il contestuale ruolo di artista e di “certificatore” e anticipando il consolidamento di alcune collaborazioni, con gli artisti coinvolti e ri/coinvolti successivamente e con Piero Sartogo coordinatore dell’immagine anche di “Vitalità del negativo nell’arte italiana 1969-70” e di “Contemporanea”, le due mostre organizzate dagli Incontri Internazionali d’Arte, l’Associazione fondata da Graziella Lonardi Buontempo a Roma.
"L'arte non è una risposta ma una domanda sul mondo"
La prima, con quel suo proporre nel novembre 1970 oltre trenta artisti italiani di varia estrazione e varia modalità espressiva nel piano terra del Palazzo delle Esposizioni di Roma che faceva scrivere a Filiberto Menna: “La capitale non ha mai ospitato un evento simile” e a Ugo Mulas di dare una fotografica lettura della mostra, la seconda allestita sempre a Roma ma nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese dal novembre 1973 al febbraio 1974 con il suo complesso articolarsi in dieci sezioni/categorie e con quella relativa all’arte internazionale che vedeva Achille Bonito Oliva porsi, ben oltre la conflittualità dei metodi sincronico e diacronico, all’interno della specificità del territorio, ovvero “dello spazio circolare in cui si verifica, si realizza e si effettua l’esperienza artistica”. E tra le due, nell’estate 1973 e nel Palazzo Reale di Napoli ”La delicata scacchiera. Marcel Duchamp 1902/1968”, nell’esercizio della strategia e nell’analisi delle metafore, tra spazio/tempo, lateralità, spaesamento, eros, esibizione, ironia. Quindi, avanti nel tempo fino alla 39.ma Biennale Internazionale d’Arte di Venezia con Luigi Carluccio quale direttore del Settore Arti Visive e Achille ad inventarsi “Aperto 8O” (con lui Harald Szeemann), riconoscendo all’arte italiana, nell’assumere “l’opera come luogo della transizione, del passaggio da uno stile all’altro, senza mai fissarsi su uno schema fisso”, una posizione di “transavanguardia”. Quella che avrebbe poi teorizzato e documentato, sempre in quell’anno, nel volume “La Transavanguardia Italiana” di Giancarlo Politi Editore. E da quel momento in poi, altre fiere e altre mostre compresa la funambolica Biennale del 1993 da lui interamente diretta e altri incontri pubblici e/o privati, fino a questo scambievole flusso di parole, che tra domande e risposte, conferma come la strategia trasversale di Achille Bonito Oliva consista, alla fine, nel permanere della rappresentazione di se stesso.
Con “Amore mio” nel giugno 1970 a Moltepulciano, per la prima volta dai corpo e immagine a quella che tu stesso definisci la critica creativa. Sei il segretario generale e il certificatore degli eventi, ma sei anche presente nel catalogo, da leggersi come pratica curatoriale, con il tuo viso, fotografato da Ugo Mulas, in otto pagine al pari degli artisti. Protagonismo personale o altro?
Direi un sano antagonismo con l’artista. Ho sempre considerato gli artisti i miei nemici più intimi, in quanto sviluppano attraverso la loro creazione una sorta di erotico e sano conflitto col critico, che in ogni caso è anch’egli creativo.
Ed è ancora provocazione, e/o ostentazione della propria immagine, l’essere critico e artista autosegnalatosi nel Catalogo Bolaffi 1974, farsi fotografare nudo su un divano a fiori per Frigidaire nel 1981 e riproporsi nel 1989 e nel 2011, o molto di più?
Diciamo che in effetti ho dato corpo e protagonismo alla figura del critico, che fino agli anni ‘70 era, come si può dire, un servo di scena, nel senso anche nobile, rispettabile e dignitoso della parola, che però occupava uno spazio alquanto laterale. Invece credo, per quello che sono i nostri ruoli nell’arte contemporanea, che il problema sia creare un antagonismo, un conflitto e una dialettica in un definito rapporto alla pari. C’è l’artista che crea e c’è il critico che riflette. Accanto alla riflessione c’è poi il lato comportamentale, i nudi su Frigidaire sono proprio il segno e la conferma che il critico non è votato a svolgere un ruolo di suggeritore invisibile. Il critico invece è un protagonista che sulla scena sviluppa principi originali e anche azioni; per cui, in effetti, i nudi su Frigidaire vogliono evidenziare anche questo, un narcisismo sano che appartiene a tutti. Il narcisismo è il motore ecologico della vita, e parlo di narcisismo e non di vanità. Perché la vanità è il prêt-à-porter del narcisismo.
"I miei nudi sulle copertine di Frigidaire confermano che il critico non è votato a un ruolo di suggeritore invisibile"
Nel libro “Il territorio magico”, il saggio del 1969 pubblicato nel 1972 dal Centro Di/edizioni di Firenze, tu affermi: “Nel territorio magico si spalancano tutte le confluenze di spazio e di tempo e il procedimento del fare è il connettivo con il presente storico…”. Questo vuol dire anticipare l’idea della transavanguardia ancor prima di “Opere fatte ad Arte” e “Aperto 80”?
Certo, ovvio che è un lungo percorso; è, come dire, un itinerario di ricerca che ha alle spalle tutto quanto accaduto. È una progressione continua fino ad arrivare appunto alla transavanguardia, dove il critico coniuga teoria e comportamento. In qualche modo, rammentando Gustave Flaubert che diceva “Madame Bovary c’est moi”, posso dire “La transavanguardia c’est moi”. Nel senso che per la transavanguardia credo di essere stato non un angelo custode, ma un angelo sterminatore, in quanto ho creato solo cinque artisti, e tutti e cinque sono diventati artisti più di me.
Nell’intervista pubblicata nell’estate 1974 su “ARTE2000”, alla mia domanda in che cosa la tua sezione per “Contemporanea” si distinguesse da tutte le altre rassegne similari, nelle quali dando per scontato il passato si sostituiva al tempo critico il tempo storico, mi hai detto: “Io, invece, ho ribaltato questo criterio e ho riportato il tempo storico al tempo critico, strutturando la sezione dell’arte con un ‘tempo’ che va dal 1973 al 1955; cioè un processo all’inverso in cui il tempo diviene uno spazio di verifica nel quale il passato non è dato come valore a priori, ma è una dimensione che va verificata, direi quasi fisicamente, dallo spettatore. E proprio, attraverso la verifica, il passato si omologa a valore costitutivo”. Ritieni sia ancora valida tale strategia?
Credo che l’arte progetti il passato, quindi è sempre interessante porre il passato come punto d’approdo, in quanto, attraversando logicamente e anche per il tramite di una mostra, un tempo della storia dell’arte, è possibile tenere alla fine l’approdo al passato come l’inizio di tutto quello che c’è.
Nell’incertezza totale che caratterizza la nostra attualità qual è il ruolo dell’arte?
L’arte è connessa a tutto. È questa la sua grande chance. Nel senso che non ha un ruolo precluso, non la si può circoscrivere. L’arte non è una risposta ai problemi del mondo, la risposta la deve dare la politica. L’arte è una domanda sul mondo. Per cui, io credo sia molto importante lasciare all’arte il massimo della libertà, il massimo della irresponsabilità, per approdare poi a delle forme capaci di produrre conoscenza e riflessione.
Ma, quanta napoletanità c’è nel tuo persistente sollecitare l’incontro tra la fantasia del critico e quella degli artisti?
Molto. È un lato di me stesso, frutto di una ironia che ho sempre avuto in tutta la mia vita. Goethe diceva che l’ironia è la passione che si libera nel distacco, ti direi che è necessario appunto in questo sano ed erotico conflitto con l’artista, avere contatto e distacco. L’ironia permette, in qualche modo, di verificare, strada facendo, il mio procedimento di approccio all’arte.
E ora “A.B.O. THEATRON. L’arte o la vita” nel Castello di Rivoli, il doveroso omaggio nei tuoi confronti, un altro episodio del tuo egocentrismo, o l’ulteriore sviluppo del tuo iniziale disegno critico?
Credo che sia un po’ come la dimostrazione di un percorso che trova in questa esposizione il suo riconoscimento. Quello che è certo, e anche va detto, è il coraggio, la libertà con cui Carolyn Christov-Barkagiev ha proposto questa mostra nella quale io da curatore divento curato.