In mostra una serie di installazioni site-specific con i temi cari all’artista: figure geometric
Buona parte dell’arte moderna, le sue correnti – dada, espressionismo astratto, gutai, per citare alcuni esempi – hanno spesso rivendicato nel gesto e in tutte le molteplici forme che separano l’unicità concreta del particolare dall’astratta genericità dell’universale uno dei criteri fondamentali per definire la propria ragione d’essere.
Comprensibile. La società di massa, le guerre mondiali, l’omologazione indotta dai mezzi di comunicazione, radio e televisione prima, internet poi. Dove trovare uno spazio in cui riaffermare un che di individuale, possibilmente radicale, radicale proprio perché sfacciatamente e inequivocabilmente individuale? Il rischio, però, è che questa focalizzazione sul particolare rendesse lo spazio sempre più astratto, fino a quasi a scomparire.
LA TENSIONE FRA CONCRETO E ASTRATTO, MATERIALE E IMMATERIALE, DENTRO E FUORI È UNO DEI NUCLEI FONDANTI DELLA SUA RICERCA
Come indica il titolo dell’ultima personale al Moca, Open (fino al 6 luglio 2025), Olafur Eliasson è uno di quegli artisti che alla ricerca sull’esterno, inteso sia nella sua eccezione fisica ed ecologica come ambiente, sia nella sua forma più teorica come spazio geometrico, ha dedicato quasi per intero la sua ricerca. Questa tensione tra concreto e astratto, materiale e immateriale, dentro e fuori è forse da sempre uno dei nuclei fondanti di una ricerca che è al contempo pratica artistica e attivismo ecologico.
Basti citare lavori come la serie The glacier melt (1999-2019), in cui la sequenzialità delle fotografie che ritraggono lo scioglimento dei ghiacciai diventa sia un indice del passare del tempo che un paesaggio emozionale; o The weather project (2003), in cui lo specchio posto sul soffitto della Tate Modern di Londra consentiva sia il raddoppiamento apparente dello spazio espositivo che l’interazione dei visitatori, riflessi dal basso alla luce di un sole post-apocalittico.
UNA PRODUZIONE CHE AL CONTEMPO INTENSIFICA E RENDE PIÙ LABILI LE DISTINZIONI FRA PERCIPIENTE E PERCEPITO, INTERNO ED ESTERNO
Quale apertura vuole testimoniare o produrre, allora, Open? La mostra consiste di una serie di installazioni site-specific che richiamano motivi cari all’artista: figure geometriche basilari che compongono vere e proprie architetture, giochi di luci e colori che modificano la normale percezione dello spazio, ma soprattutto riflessi, che al contempo intensificano e rendono più labili le distinzioni tra percipiente e percepito, interno ed esterno.
Perché ogni riflesso è in fondo una critica. Quando ci vediamo riflessi in uno specchio, o quando riflettiamo su noi stessi, ci apriamo. L’opera così diventa, sia letteralmente che non, una riflessione sulla galleria e sul museo, e su ogni concezione di spazio astratto e omogeneo. Non c’è dentro. Non c’è fuori. Tutto fluisce in ogni dove. Perché ovunque è aperto.