Barilli riflette sulla sua lunga carriera
Critico letterario e d’arte, docente universitario e pittore: è figura di spicco nel panorama della cultura italiana
La Bologna dei primi anni ‘60, quella vivace di Dozza e di Lercaro, di Morandi e di Mandelli, oltre che di Anceschi e degli Arcangeli (Nino il musicista, Gaetano il poeta, Bianca la pittrice che si firmava Rosalba e Francesco lo storico, per gli amici Momi), fu il luogo e il tempo per incontrare una delle tre anime/maniere di Renato Barilli, quella del critico d’arte e del critico letterario. Mi accadde, leggendo sul n.3/1960 de “Il Verri” la sua nota sulla 30a Biennale di Venezia. Si apriva su “l’indecisione della giuria, circa l’assegnazione del premio internazionale, tra Fautrier e Hartung”, pur essendo “la storia, il valore decisamente con Fautrier”.
C'è sempre un artista in un critico e un critico in un artista
Ebbi modo di apprezzare il suo ruolo distensivo all’interno del Gruppo 63 (di cui era componente) nel corso del secondo convegno tenutosi a Reggio Emilia all’inizio di novembre del ‘64. Negli anni seguenti, oltre l’irrequieto ’68, quel suo andare per libri e per quadri mi faceva comprendere come proprio Luciano Anceschi e Momi Arcangeli fossero i due specifici rimandi nella storia critica di Barilli. Storia iniziata, ovviamente, prima di “Gennaio 70 Comportamenti Progetti Mediazioni”, la mostra, tenutasi nel Museo Civico di Bologna nei primi mesi di quell’anno, che lo vedeva curatore con Andrea Emiliani, Maurizio Calvesi e Tommaso Trini, che confermava la sua visione mobile dell’arte tra forme aperte e forme chiuse e informale freddo e che, accrescendo “il repertorio dei ‘mezzi’”, aveva consentito “ad alcuni artisti di sperimentarne uno inedito particolarmente intonato ai caratteri di una ‘civiltà elettronica’ avanzata”.
Il '68 per me è una data decisiva con il trionfo del mio amato McLuhan
Riaffermata due anni dopo, in “Opera o comportamento”, un “qualcosa di più, o per lo meno di diverso, da un puro e semplice confronto tra due ’ismi’, tra due correnti o tendenze”, essendo commissario della selezione italiana nella 36a Biennale di Venezia (lo ritroveremo nella città lagunare tra i curatori di “Aperto 90” a chiedersi: “Verso un barocco freddo?”) con Francesco Arcangeli e Marco Valsecchi; oltre che nella Settimana Internazionale della Performance che, dall’1 al 6 giugno 1977, presentava (con lui, gli allievi Francesca Alinovi e Roberto Daolio) i protagonisti della riappropriazione del corpo e dell’impiego dei nuovi media audiovisivi, con Marina Abramovic e Ulay nudi, e tutti noi a passare tra loro per entrare nella Galleria comunale d’arte di Bologna, e Hermann Nitsch e il suo Orgy Mistery and Theater nella sconsacrata chiesa di Santa Lucia.
In tutta la mia vita accanto all'interesse per l'arte c'è sempre stato quello per la letteratura
Da quel momento, per Barilli, una lunga sequenza di curatele, tra le quali rammento nella primavera del 1980 “Dieci anni dopo – I Nuovi nuovi” la mostra con la Alinovi e Daolio nella succitata Galleria che segnava l’inizio di un nuovo movimento artistico (i Nuovi nuovi, appunto) legato alla citazione cara al postmodernismo; poi sempre in quel luogo ma con Franco Solmi “La Metafisica: gli anni Venti (1980) e “L’Informale in Italia (1983), e quindi “Anniottanta” (1986) e “Anninovanta (1991), oltre che “Il Nouveau Réalisme dal 1970 ad oggi” al Pac di Milano nel 2008. Ma anche tantissimi libri tra arte e letteratura fra cui: “Dall’oggetto al comportamento. La ricerca artistica 1960-1970” (Ellegi, 1971),“Il ciclo del postmoderno.
La ricerca artistica negli anni ‘80” (Feltrinelli, 1987), “Culturologia e Fenomenologia degli Stili (Il Mulino,1991), “La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del ‘Verri’ alla fine di ‘Quindici’” (Il Mulino, 1995), “Una Mappa delle arti nell’epoca digitale. Per un nuovo Laocoonte” (Marietti, 2019).
Nel 2010, completato il suo lungo corso di docenza/anima/maniera: Estetica, Storia dell’arte contemporanea all’Università di Bologna oltre che Fenomenologia degli stili presso il DAMS, Barilli ritorna al primo amore/ anima/maniera, ovvero alla pittura che, come egli stesso afferma, “avevo praticato con impegno, diplomandomi all’Accademia di belle arti di Bologna con maestri quali Virgilio Guidi e Pompilio Mandelli nel 1959, un anno dopo aver preso una Laurea in lettere moderne”, rammentando anche l’unica personale (1962) al Circolo di cultura. E propone le sue opere in più occasioni, non ultima la mostra “Visti da vicino” (2019) nella Galleria La Nuova Pesa di Simona Marchini a Roma, con delle tempere raffiguranti, in una chiara derivazione informale tra timbri e toni, personaggi del mondo dell’arte. Partendo da una foto o da uno scatto dello smartphone, nel perdurare di quella sua attenzione ai nuovi mezzi tecnologici che, il 5 marzo 2015, aveva determinato la nascita di “Pronto Barilli.
Arte, letteratura, attualità: il blog di Renato Barilli”, l’appuntamento settimanale in tre parti che rinnova la sua azione di osservatore, di studioso dell’uso del computer e di critico militante; E che mi spinge oggi a porgli questi sette interrogativi tra passato e presente.
Quale è stato il tuo rapporto con Francesco Arcangeli?
Devo precisare che non sono stato allievo di Francesco Arcangeli, ma di suo fratello maggiore, Gaetano, mio docente di lettere al liceo classico Galvani. Ritengo che se per tutta la mia vita accanto all’interesse per l’arte c’è stato pure quello per la letteratura lo devo a lui. Invece in arte avevo cominciato molto presto ad occuparmene, quasi da enfant prodige, ricevendo una perfetta educazione tecnica, culminata nella frequentazione dell’Accademia di belle arti di Bologna, e in parallelo mi sono pure laureato in lettere moderne. Ma certo il contatto col grande Momi è stato decisivo, quando si è stabilito nei primi ’50. L’intera Bologna deve a lui se è stata tra le prime città d’Italia a sensibilizzarsi all’Informale, attraverso i famosi saggi di Arcangeli apparsi su “Paragone”. Gli devo anche i due maggiori successi della mia intera carriera di critico d’arte, avermi procurato una cattedra universitaria proprio in storia dell’arte contemporanea, nel ’72, e avermi invitato a partecipare al suo fianco alla sezione italiana della Biennale di Venezia del ‘72, dove per sé, da bastian contrario quale è sempre stato, lui sosteneva la causa dell’“opera”, della pittura, attraverso le sue tre “M”, Mandelli, Moreni, Morlotti, ma apriva pure in direzione del comportamento affidando a me il ruolo di farmene paladino.
Cosa rammenti della tua allieva Francesca Alinovi?
Francesca Alinovi è stata la migliore mia scoperta tra gli allievi che ho avuto in tanti anni di insegnamento. Devo dire che al primo incontro era ancora attardata su vecchie frontiere ma l’ho convinta ben presto a occuparsi di Piero Manzoni e a seguirmi in ogni avventura delle più avanzate, come le performance degli anni ’70, i nuovi-nuovi di poco dopo, imprese in cui ero affiancato pure da Roberto Daolio. Quindi lei ha spiccato il volo frequentando New York e entrando in contatto con i graffitisti, pronta anche a introdurli presso di noi.
Ma, qual è il ruolo della critica d’arte?
L’arte si basa su tre fattori, chi la produce, chi se ne fa mediatore spiegandola al pubblico, ma anche chi la protegge, con le gallerie e il mercato. Questi tre fattori devono coesistere in un sistema sano e fisiologico, Preciso che non si nasce appartenendo all’uno o all’altro di questi ruoli. In proposito uso la similitudine col feto, indeciso fino al terzo o quarto mese se divenire maschile o femminile e c’è pure chi si ferma a uno stato intermedio. Allo stesso modo noi sostiamo in una zona ambigua e indecisa, finché non optiamo per l’una o per l’altra soluzione. E dunque c’è sempre un artista in un critico, e viceversa, non si possono separare i due versanti con l’accetta.
Il ’68 quanto ha influito sull’arte italiana degli anni ‘70?
Il ’68 per me è stata una data decisiva, il trionfo del mio amato McLuhan con l’imporsi dell’elettronica di cui lui è stato lo strenuo sostenitore. Quella rivoluzione tecnologica spiega perché allora si abbandonasse la “rappresentazione”, con proiezione delle immagini su un supporto bidimensionale, per proporre forme di intervento diretto, le installazioni, la performance, e la fotografia e la ripresa televisiva come loro succedanei.
Oggi, in che direzione si muovono gli artisti italiani?
Mi sembra che gli artisti italiani procedano con buon passo allo stesso modo di quanto succede ora in tutto il mondo, dove sono scomparse le differenze storiche, che per esempio abilitavano solo noi occidentali a “rappresentare” la realtà. Ora in tutti i Paesi si fa ricorso alla foto, al video, alle installazioni, ma anche alla pittura in dimensione ambientale, come muralismo o street art. Sarebbe la famigerata globalizzazione, che però consente a ogni etnia di recuperare le proprie radici, e nasce allora un’ottima sintesi tra il globale e il locale, il glocal, cui tutti contribuiamo. Da segnalare anche il ruolo sempre più decisivo assunto dalla componente femminile, ora in numero pressoché paritetico rispetto agli esponenti dell’altro sesso.
Dopo mezzo secolo, quale può essere ancora l’unicità del DAMS?
Il DAMS non è più unico. Lo era stato agli inizi quando il suo fondatore, Benedetto Marzullo, aveva un grande ascendente ministeriale e faceva bocciare le richieste di altre università di averlo a loro volta, ma al giorno d’oggi questo divieto è del tutto caduto, e i corsi DAMS, o loro equivalenti con diversi acrostici, si trovano in quasi tutti i più importanti atenei. Però il criterio delle lauree tre più due, con una prima generica e una seconda più specialistica, ha causato una profonda ferita ai DAMS, prima erano di durata quadriennale, e obbligavano a seguire tutti gli indirizzi, ora sono ridotti a un solo triennio, dato che le lauree biennali, cosiddette magistrali, implicano una scelta, ci si specializza o in arte o in musica o in cinema o in teatro. Inoltre siccome appunto i DAMS triennali ci sono dappertutto, le famiglie obbligano i figli a frequentare il triennio a casa loro, essendo disposti a pagare solo per i bienni che invece sono più rari ed esistono solo presso gli atenei più importanti.
L'attuale ritorno alla pittura è per me una necessità, sento il dovere di recuperare una mia dote
Il tuo ritorno alla pittura: un rimpianto, un rimorso, o una necessità?
Dici molto bene, il mio ritorno risponde ai tre aspetti che elenchi: è un rimpianto per il tempo perso sacrificando una mia indubbia vocazione, è un rimorso per averlo fatto a danno di una mia componente. E pure una necessità, prima di andarmene da questo mondo, sento il dovere di recuperare una mia dote.