Corpus domini: la stimolante rassegna a Palazzo Reale.
Ad accogliere il visitatore una scultura in cera di Gavin Turk, raffigurante Ludwig Wittgenstein con un uovo in mano
Corpi: di cera o ceramica; corpi di carta, corpi in vetroresina, in marmo e in cemento; corpi riaffermati nella loro presenza, reificati, smentiti, ridicolizzati e glorificati. “Siamo di fronte a un’eclissi del corpo?”, si chiede Massimo Recalcati nel catalogo della mostra Corpus Domini a Palazzo Reale. Si tratta indubbiamente di una domanda paradossale: mai come oggi, tra social network e pornografia online, i corpi vengono affermati, esposti, offerti. La rassegna, lungi dal risolvere un tale paradosso, lo amplifica e lo esplora in molte delle sue innumerevoli sfaccettature. Fin dal titolo, sembra chiara l’intenzione di indicare un’assenza piuttosto che una presenza, in particolare l’assenza della presenza reale del corpo di Cristo nell’ostia consacrata durante l’Eucarestia. Senza incarnazione, infatti, che cosa resta di un corpo? Oppure: una semplice somiglianza umana fa davvero un corpo? Se la presenza compone il corpo glorioso che unisce l’umano al divino e sanziona la somiglianza della copia al modello, come rappresentarne l’assenza?
IN OMAGGIO A LEA VERGINE, IL PERCORSO ESPOSITIVO
SI SNODA TRA BODY ART E IPERREALISMO
In omaggio a Lea Vergine, un percorso curatoriale che si snoda fra body-art e iperrealismo afferma e nega il corpo fin da principio, dove ad accogliere il visitatore c’è una scultura di cera di Gavin Turk raffigurante il filosofo Ludwig Wittgenstein con un uovo in mano, come a indicare che la tautologia che lega la somiglianza a un principio d’identità (“il ritratto di Cesare è Cesare”, avrebbero detto i logici di Port-Royal) è effimera quanto il corpo rappresentato, tanto che ad assumere consistenza è più l’uovo del corpo, destinato comunque a infrangersi al suolo quando questi si sarà sciolto. Come ad amplificare l’impressione di straniamento suscitata da un corpo così somigliante, e proprio per questo tanto più spiazzante, riecheggia in un loop infinito e snervante la risata irrisoria della “scultura sonora” di Gino De Dominicis, D’Io, ulteriore smentita, o meglio lacerazione che crea una frattura e un’apertura del legame che lega l’umano e il divino. Da questo inizio frastornante, l’esposizione traccia un percorso ammirevole che tocca il corpo umano nella sua fragilità (Zharko Basheski, Out of...), nella sua fantasmatica assenza (Vlassis Canaris, Where’s North, Where’s South?), nell’accumulazione delle tracce delle sua assenza (Boltanski, La Terril Grand-Hornu), nelle tracce dei suoi transiti (le valigie e gli zaini di Franko B), nella sua stessa transitorietà (il commovente Proyecto para un memorial di Oscar Muñoz).
IN RASSEGNA A RAPPRESENTARE UNA CORPOREITÀ VISCERALE,
POETICA E CONDIVISA SONO LE ARTISTE DONNE, DA GINA PANE A CAROL RAMA
Forse perché nata sotto l’egida di Lea Vergine, poi effettivamente curata da Alfano Miglietti, o forse perché la questione della somiglianza nell’iconografia occidentale e quasi sempre stata prevalentemente questione fra figli e padri, è interessante notare come diverse fra le opere più interessanti della rassegna, in grado di rappresentare una corporeità viscerale, poetica e condivisa, siano di artiste donne: a partire dall’Azione sentimentale di Gina Pane e dai dipinti di Carol Rama esposti nella sala dedicata a Lea Vergine, passando per la splendida Slumber di Janine Antoni (un rilevatore di onde elettromagnetiche collegato a un enorme telaio che “registra” i sogni dell’artista, lasciando sul lettino un sudario della sua vita onirica), fino alle pittoriche, raffinatissime, videoinstallazioni di Michal Lovner. Al di là della catastrofe della somiglianza, una via femminile sembra riaffermare le possibilità di un corpo, il nostro corpo, e di conseguenza il corpo degli altri, dell’Altro direbbe Recalcati à la Lacan: forse sarebbe meglio dire dell’Altra.