Vernissage: che cosa mi metto? Meglio il costume adamitico

Con l’autunno, riparte la stagione espositiva. Tante le mostre da non perdere (a sentire gli organizzatori). C’è solo l’imbarazzo della scelta, unito a quell’altro imbarazzo che in genere precede ogni apparizione pubblica: che cosa mi metto?

Azzeccare il dress code di una manifestazione, quando non indicato nell’invito, non è cosa da poco, frivola, o che attiene solo alla vanità. In gioco entrano componenti più profonde, che hanno a che fare con l’identità, il ruolo sociale, il decoro e la dignità personali, il rispetto nei confronti di chi ci ospita e degli altri intervenuti. Dimenticate, ormai, le indicazioni delle nonne, per cui è fuori luogo andare a un gran gala con un abbigliamento casual, come in abito da sera e black tie a una rassegna in uno scantinato di artisti underground. Una questione di sensibilità, prima che di educazione, passata di moda.

Nel mondo dell’arte, poi, in nome di una pretesa libertà dalle convenzioni, ne vediamo di tutti i colori, ognuno si presenta agghindato secondo il proprio estro, o calcolo per stupire meglio. Ci sono il pittore dalla studiata trasandatezza che arriva in braghe a quadretti e berretto di traverso, il critico in abiti da becchino o da clown, affiancato da colleghe con gonnellone sgualcite, penzolanti fino ai piedi e scarpe di legno. Quanta sciatteria proprio in chi dovrebbe, invece, indicarci le vie della bellezza.

Né mancano fanciulle in fiore e matrone abbondantemente appassite, arrampicatrici sociali per la maggioranza. Si riconoscono al primo sguardo: super tatuate comme il faut, inguainate in abitini succinti, in un tripudio di scollature, trasparenze, spacchi inguinali e vertiginosi tacchi a spillo, a distribuire sorrisi incantevoli ai personaggi famosi e, presumibilmente, ricchi.

Nauseati da tali messe in scena non proprio edificanti? Sono arrivate le associazioni dei nudisti a togliere d’impaccio e, per i sani di mente, a crearne un altro. Tutti in galleria in costume adamitico (ma tocca aggiungere pure evitico per non urtare gli adepti LGBTQ+). Diverse, negli ultimi anni, le istituzioni che organizzano visite per gli appassionati del genere: a Parigi il Museo Maillol e il Palais de Tokyo, il Mucem a Marsiglia, il Museo d’arte contemporanea di Lione, il Leopold Museum a Vienna, a Barcellona il Museo di Cerdanyola e a Milano il Pac. Basta prenotare, pagare, attenersi alle regole: aboliti sguardi concupiscenti, erezioni, il benché minimo segno di eccitazione sessuale. L’innocenza deve regnare sovrana.

Sarà. Intanto, sono 20 milioni i nudisti in Europa, 500mila in Italia: un business da non sottovalutare, anche per gli enti pubblici in perenne lotta con bilanci deludenti. È sufficiente fornire a questa singolare categoria di potenziali visitatori motivazioni in sintonia con il loro credo. Licenziare il pudore, aggirarsi per le sale in una nudità da paradiso terrestre prima del peccato originale sarebbe esperienza straordinaria, illuminante, ci farebbe sentire parte delle stesse opere contemplate, anzi opere d’arte a nostra volta. Addirittura, produrrebbe un impatto positivo sul benessere psicofisico.

Chi persevera nella vergogna – dal latino verecŭndia, turbamento per atti ritenuti indecenti – chi insiste con la foglia di fico di Adamo ed Eva sulle pudende non sa che cosa si perde. Forse, sì. Forse, anche no.

L'Autore

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Nella sua geografia dell’anima ha Venezia, la città natale, nel cuore e la Versilia eletta a buen retiro. Quando nell’adolescenza le chiedevano che cosa avrebbe desiderato fare da grande, rispondeva sicura: viaggiare e scrivere. Così, per raggiungere lo scopo, si è messa a studiare lingue prima, lettere poi.  E sono oltre 30 anni che pubblica romanzi, saggi, scrive articoli, gira per il mondo. Ci sono tre cose - dice - di cui non può fare a meno: il mare, la scrittura, il caffè. Ah: è il direttore responsabile di AW ArtMag.

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