"Il vero provocatore non sa di esserlo"

I tanti volti di Catherine Millet

Giornalista, critico d’arte, scrittrice, fondatrice di “Artpress”. Ha svolto un ruolo importante nel milieu artistico francese prima troppo ripiegato su se stesso

Fu nella seconda decade dell’ottobre 1971, visitando la VII Biennale di Parigi al Musée d’Art Moderne de la Ville - un evento di transizione, come lo definiva Georges Boudaille in catalogo, da leggersi, però, non come un compromesso, ma quale una grande apertura al futuro, oltre che la più rigorosa e teorica riflessione sull’arte concettuale, sull’iperrealismo e sul comportamento - che mi imbattei per la prima volta in Catherine Millet, nella sua scrittura, nelle sue curatele, nelle sue scelte.

Mi trovai, così, tra le opere di Joseph Kosuth, Vito Acconci, Daniel Buren, Gilbert and George, Dennis Oppenheim, Art & Language, Pierpaolo Calzolari, Gérard Titus-Carmel, Victor Burgin ed altri. Un po’ di mesi dopo, nel febbraio 1973, Milvia Maglione mi portò una copia del primo numero di “Artpress” parlandomi di quella Parigi dei primissimi anni ‘70, del suo viverci con Lucio Del Pezzo, dell’attenzione di Daniel Templon per l’arte concettuale internazionale e per Support-Surface e di “Textes sur l’art conceptuel”, un libro che avrei letto e riletto più volte.

Ritrovai, così, il nome di Catherine Millet, saggista, co-fondatrice e rédactrice en chef di una rivista dallo sguardo trasversale e incrociato tra le arti, che metteva insieme Marcel Duchamp, Barnett Newman, Ezra Pound, Walter Gropius, John Cage, Joseph Kosuth. Ne divenni un lettore non abituale. Negli anni successivi la Millet si occupa nuovamente della Biennale di Parigi (1977), s’inventa la mostra “Baroque 81” (si parla del ritorno alla pittura), è sempre più impegnata nella promozione del mondo dell’arte francese (“Art contemporain en France”, 1987) e quale curatrice per la Francia alla Biennale di San Paolo del Brasile del 1989 propone Alain Jacquet, Antonio Semeraro, Philippe Thomas, nonché una retrospettiva di Yves Klein, cui nel 1982 aveva dedicato una monografia.

Ma è César l’oggetto della sua attenzione da commissario unico del padiglione francese nella XLVI Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia del 1995, con cui mi ritrovo davanti alle 520 tonnes di lamiere compresse dell’amico scultore Ricordando anche l’accurato ed esauriente scritto sul numero 22 di Artpress del gennaio/febbraio 1976 con il titolo “Un sculpteur - César: toucher l’objet”.

È commissario unico del padiglione francese nella XLVI Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia del 1995, ed è qui che mi ritrovo davanti alle 520 tonnes di lamiere compresse dell’amico scultore. All’inizio del terzo millennio, con “La vie sexuelle de Chaterine M.” (Éditions du Seuil), un successo mondiale con quasi cinquanta traduzioni e tre milioni di lettori con cui vince il Premio Sade 2001, la Millet mescola le carte e nell’inequivocabile identificazione con la protagonista del romanzo compie una sorta di performance per parole, nella quale il corpo, il suo corpo, è il protagonista assoluto, tra esibizionismo e provocazione.

Quella provocazione/ impegno sociale esercitata firmando su “Le Monde” del 23 maggio 1977, con Aragon, Barthes, Deleuze, Sartre ed altri, una petizione per abrogare alcuni articoli della legge sulla maggiore età sessuale, e ribadita nella lettera aperta pubblicata da “Le Monde” il 9 gennaio 2018 scritta da cinque donne (con lei, Sarah Chiche, Catherine Robbe-Grillet, Peggy Sastre e Abnousse Shalmani) e firmata da un altro centinaio di donne tra cui anche Catherine Deneuve, contro il movimento #MeToo e nella difesa della “libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale”.

Da quel momento, una sequenza di titoli tra i quali “Dalí et moi” (2005), “Art contemporain: Histoire et Géographie” (2006), “Aimer Lawrence” (2007), “Jour de souffrance” (2010), “Une enfance de rêve” (2014) e di riconoscimenti come “Le Prix de la Coupole” (2014) e “Le Prix François Morellet” (2016). A ciò si aggiungono le recenti attenzioni su “Artpress” per Mark Tobey, Jesús Rafael Soto, Johann Le Guillerm, Carlos Augusto Giraldo e Roméo Mivekannin. Il tutto a conferma della qualità della sua scrittura e della costante attenzione sull’uso e sulla funzione del linguaggio. Da qui il desiderio di porre all’eclettica e multiforme Catherine queste sette domande.

Cosa vuol dire aver iniziato a scrivere d’arte per “Lettres françaises” di Louis Aragon?

Per un’opera che sto scrivendo, ho recentemente sfogliato diversi numeri di “Lettres Françaises” della fine degli anni ’60 e dell’inizio degli anni ’70. Ebbene, non vedo nella stampa francese di oggi l’equivalente di una rivista culturale con uno spettro, un’ampiezza e una qualità intellettuale così esigente. Tutte le settimane su grande formato apparivano lunghe interviste e saggi delle più grandi firme (Lévi-Strauss, Foucault) e delle battaglie ideologiche per la libertà d’espressione. Quale ricchezza! E quale livello di pensiero! Sono orgogliosa di aver iniziato con questa pubblicazione. Oggi l’intensificazione degli scambi culturali grazie alla pluralità della stampa e grazie a internet va sfortunatamente a discapito dell’approfondimento della conoscenza.

Non ho mai incrociato Louis Aragon negli uffici del giornale. L’ho incontrato solamente in due riprese, in occasione di vernissage di due amici artisti, Gérard Titus-Carmel et Marc Albert-Levin, entrambi all’epoca scrittori. Aragon era molto attento ai giovani poeti, scrittori e artisti. Era, come si dice, un grande personaggio. Qualcuno il cui peso simbolico contava nella vita intellettuale, lo si poteva amare o combattere!

Ero troppo timida per osare parlargli quando fui presentata a lui e troppo ignorante. Oggi, sono una grande ammiratrice della sua letteratura, in particolare dei romanzi del ciclo “Monde réel” e senz’altro de “La Semaine Sainte”. Jacques Henric, che era assai vicino ad Aragon mi disse un giorno che lui aveva scritto “La Semaine Sainte” durante le noiose assemblee del partito comunista.

"Quando mi fu presentato Louis Aragon, ero troppo timida per osare parlargli"

Come e perché è nata “Artpress”?

Prima dell’epoca della stampa industriale, le ragioni per fondare un giornale o una rivista corrispondevano alla volontà di difendere un’idea politica o una corrente di pensiero, o un movimento artistico non sufficientemente riconosciuto. “Artpress” è stata fondata da delle persone desiderose di aprire il milieu artistico francese ancora troppo ripiegato su se stesso e in più di interessarsi alle avanguardie americane. Desideravamo anche articolare meglio ricerca formale e ricerca teorica. Le due correnti che realizzarono questo obiettivo furono dal lato francese Support–Surface e dal lato anglosassone l’arte concettuale, in particolare il gruppo Art & Language.

Anticonformista, ha firmato assieme a un centinaio di donne fra cui Catherine Deneuve contro il movimento #MeToo

Cosa rimane della lunga e importante collaborazione con Daniel Templon?

Un’amicizia e una certa complicità a dispetto di quanto oggi ci separa nel nostro modo di vivere e nelle nostre scelte estetiche. Daniel ed io veniamo dalla stessa piccola cittadina della banlieu parigina e dalla medesima piccola borghesia. Ero ancora liceale quando lo incontrai, lui era uno studente che si guadagnava da vivere insegnando ginnastica.

Abbiamo fatto assieme il nostro debutto professionale, in un’epoca in cui non si parlava ancora di arte contemporanea, ma solo di avanguardia. Vale a dire che apparteniamo a quella generazione che ha veramente partorito il mondo dell’arte che conosciamo oggi, ma prima che il mondo della finanza se ne impadronisse e che l’industria dell’intrattenimento lo edulcorasse.

Certamente abbiamo lavorato duro, ma eravamo in un periodo dove c’era molta solidarietà e molta gioia perché era sperimentale. Conservare la memoria di quest’epoca ci aiuta a non smarrirci oggi.

"Con Daniel Templon è rimasta un'amicizia e una certa complicità malgrado le nostre strade si siano separate"

L’arte concettuale, il minimalismo, Support-Surface e poi “Baroque 81”. Come mai?

Avevo organizzato “Baroque 81”su richiesta di Suzanne Pagé, allora direttrice del Musée d’art moderne de la Ville de Paris con lo scopo di registrare la profonda trasformazione in atto all’epoca nell’arte contemporanea. Agli inizi degli anni ’80, si è molto parlato di ritorno alla pittura dopo diversi decenni di post-dadaismo. Ma quanto mi interessava all’interno di questa corrente erano soprattutto le opere che pur ricorrendo alle tecniche tradizionali della pittura erano disturbate, travagliate, infestate, talvolta minate dalle esperienze iconoclaste che le avevano precedute. Peraltro, qualche artista che aveva partecipato all’esposizione si era dedicato in precedenza a pratiche neodadaiste, o concettuali o si era dedicato alle performance.

Ma l’arte può essere un collante sociale?

È la cultura a fungere da cemento sociale, perché è tributaria di una lingua, di una storia e ancora di più di una religione. È evidente che un rapporto con l’immagine così importante nella cultura occidentale si spieghi in gran parte attraverso la sua storia religiosa. Contemporaneamente bisogna vigilare affinché quanto si intende per cultura non si confonda con isolazionismo. Credo che noi, in modo particolare cittadini dell’Europa occidentale, siamo gli eredi di una cultura che è stata abbondantemente attraversata e sottomessa da influenze straniere e sappiamo fino a che punto ciò sia determinante. La cultura è uno zoccolo solido ma permeabile. L’arte è un’altra cosa. È la relazione unica che si stabilisce fra un individuo, l’artista, che ha dato forma ai suoi pensieri più profondi, e uno spettatore che apprende questa forma a partire dalla propria e singolare soggettività. L’arte offre dei momenti eccezionali quanto più ci si allontana dalla comunità.

Cosa vuol dire essere una provocatrice?

Il vero provocatore non sa di esserlo. È la reazione di chi rimane scioccato a rivelargli il suo essere provocatore. Il provocatore è un ingenuo che crede di poter esprimere in totale sincerità la sua verità.

Nel romanzo autobiografico "La vie sexuelle de Chaterine M." protagonista assoluto è il suo corpo tra esibizionismo e provocazione

Giornalista, curatrice di musei, scrittrice, critico d’arte, saggista: ma chi è Catherine Millet?

Catherine Millet è stata un’adolescente animata dal desiderio di scrivere. Le circostanze della vita hanno fatto in modo che lei potesse in un primo momento soddisfare questo desiderio scrivendo d’arte. Scrivere d’arte ha sviluppato il suo senso d’osservazione, che le è stato molto utile, prima nella sua vita personale poi nel racconto di questa vita attraverso libri autobiografici. Organizzare qualche mostra e soprattutto dirigere la redazione di una rivista, attività che esigono pragmatismo e padronanza della logistica, le sono state molto utili per conservare il senso della realtà e partecipare alla vita della città. Se mi diverto a risponderle con la terza persona singolare non è per megalomania. Piuttosto è perché mantengo sempre un rapporto di distanza con me stessa. Ciò mi viene naturale ma è accentuato dal fatto di aver scritto molte opere autobiografiche in prima persona. Le giuro che ciò aiuta a relativizzare se stessi.

L'Autore

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Dai primissimi anni ’60 lo trovi a raccontare l’arte (molto spesso anche i suoi - dell'arte - tanti rapporti con l’esercitata scienza) e a colloquiare con gli artisti. Lecce, Bologna e Urbino i luoghi della formazione. Roma, Torino e Napoli quelli del fare. Libero e creativo, ha perso il conto dei buchi su una tela, ha rotto un bicchiere napoleon liberando la mosca prigioniera, ha vissuto il ’68 e dialogato sul concetto, ha pieno di parole un Calendario senza fine, ha dato alle fiamme cavalli di cartapesta su una pira, e… Trentacinque anni fa rammentando Minotaure ha inventato “ARTE&CRONACA”.

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