200 opere ripercorrono la sua singolare carriera artistica
Ketchup, sciroppo, tabacco, caffè, albume, salsa al peperoncino, birra, senape, formaggio cheddar, polvere da sparo: la lista della spesa di Ed Ruscha è, certamente, archetipica della cultura popolare statunitense anni ’60. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo rilanciato dallo stereotipo filmico, la west coast è facilmente associabile a sterminati road trip attraverso diner, hotel e palme.
L'INCONFONDIBILE SCRITTA "HOLLYWOOD" CHE CAMPEGGIA SUL MONTE LEE E IL LOGO DELLA TWENTIETH CENTURY FOX, ISOLATI, RIBADISCONO L'OPULENZA DELL'INDUSTRIA CINEMATOGRAFICA
L’artista, che a Los Angeles abita e incentra la produzione da oltre sei decenni, fagocita, digerisce e metabolizza la dimensione caratteristica e al contempo straniante in cui è immerso, restituendo una delle produzioni più influenti sul panorama americano dal dopoguerra. Eterogenee, talvolta realizzate con materiali anticonvenzionali - appunto, la lista della spesa - le opere di Ruscha, 200 delle quali sono ospitate fino al 13 gennaio al MoMA di New York nella mostra “Now Then”, spaziano tra fotografia, pittura, disegno, incisione, libri, film, installazioni, in una libertà di sperimentazione costantemente domata da grande senso estetico. L’esposizione, curata da Christophe Cherix e Ana Torok, affianca ai lavori più acclamati, come Standard Station, Ten-Cent Western Being Torn in Half del 1964, quelli meno noti della carriera multidisciplinare, come le copertine di Artforum da lui impaginate quando svolge la professione di grafico in magazine e agenzie pubblicitarie. L’inconfondibile scritta “Hollywood” che campeggia sul monte Lee e il logo della Twentieth Century Fox, isolati, ribaditi a sottolineare la centralità e l’opulenza dell’industria cinematografica, figurano tra i soggetti più iconici assieme a parole selezionate dal linguaggio colloquiale, in libri distopici di JG Ballard e tra onomatopee, sovrapposte ambiguamente a scenari naturalistici che ricordano le cime del Canada o i tramonti californiani, in un gioco di tensione costante tra segno e contenuto. I legami con il dadaismo,l’arte concettuale e la pop art sono evidenti laddove la celebrazione della bellezza e il gesto impulsivo lasciano il posto a un’impeccabile quanto inquietante riproduzione di simboli e luoghi comuni della contemporaneità, privati di ogni sentimento e cesellati in un rigore grafico razionale che ne amplifica la spaventosa potenza dominante. Anche le stazioni di servizio, le vedute aeree di parcheggi, i condomini sono svuotati dalla componente umana e da ogni contrassegno, in un processo di standardizzazione talmente radicale che, al contrario, ne alimenta l’unicità. Signore e signori, la serpe in seno all’arte, la battaglia dell’arte contro se stessa, nel tentativo di abbattere i cliché formali e culturali della tradizione, è tuttora profondamente viva.