Una vita in viaggio fra Germania, Francia e Italia alla continua scoperta di se stesso
Amare le opere di Bernard Aubertin è facile perché al di là di ogni conoscenza i suoi monocromi totali, l’idea dell’odore acre dei suoi brulé, la sua totalità di realista entrano nell’anima.
Bernard se n’è andato mestamente consegnandoci il profumo di una malinconica esistenza nella quale solo l’atto creativo ha reso l’uomo davvero tale. In ogni passaggio della sua presenza sulla terra ha dovuto agire sulla realtà, per non farsi sopraffare, per dimostrare che il suo colore ed il suo fuoco avrebbero brillato ed arso più di lui, oltre a lui.
Appresi del lavoro di Aubertin trent’anni fa, ma lo incontrai molto dopo. Conobbi una persona buona: viso dolce, occhi puliti e un sorriso di un uomo d’altri tempi. Come d’altri tempi era il suo abbigliamento, portavoce di una forma di mestizia e semplicità radicata nel cuore. Ricordo che mi strinse la mano con affetto, mi diede un abbraccio sincero e comprese il mio imbarazzo di giovane donna coinvolta in una parata di figure sconosciute.
L'ESORDIO NEL '57 CON IL PRIMO INCONTRO CON KLEINE, QUINDI I CONTATTI CON IL GRUPPO ZERO DI DŰSSELDORF E LE RELAZIONI CON MACK, PIENE E UECHER
Composto, colto e desideroso di creare, stupito da quello che l’esistenza stava a lui riservando: questo era Bernard. Penso ai suoi scritti, alle narrazioni che raccontano di un viaggio iniziato e concluso, esattamente come tutti i viaggi sono destinati a fare. Dai 40 metri quadri di un appartamento parigino al sesto piano di rue Léopold Robert, torrido d’estate e gelido d’inverno, ai dieci anni trascorsi a Brest per curare la sarcoidosi, per vivere poi in Germania, al suo arrivo in Italia e la conclusione, ancora in Germania.
E poi i suoi appunti di viaggio. Note precise, descrizioni di paesaggi, impressioni rubate, riflessioni. Un viaggio si diceva, ed un ritorno, quello in Italia. Un tour affrontato con l’urgenza e l’aspettativa di chi ancora non ha trovato un riparo sicuro. È il suo Grand Tour, è la scoperta di se stesso. Non vi sono più le carrozze e i postiglioni di fine settecento a fargli compagnia, non più locande o facoltose famiglie che attendono, ma taxi, treni e amici che lo seguono.
Un tour che giunge quando la formazione è già sbozzata. Le origini del suo lavoro sono note: il primo incontro con Klein nel 1957, i contatti con il gruppo Zero di Düsseldorf, le relazioni con Mack, Piene e Uecker, i viaggi, i galleristi, i mercanti. Ma qualcosa forse mancava.
CONCEPIVA L'UOMO IN CAMMINO VERSO UNA PROGRESSIONE CONTINUA, NUTRIVA FIDUCIA NELLA POSSIBILITÀ PER L'INDIVIDUO DI RINASCERE DALLE CENERI
Dice Aubertin che non è possibile inventare senza osservare ciò che ci circonda: questa sensibilità doveva essere ritrovata in un Paese a lui vicino con il cuore. Il Paese doveva essere l’Italia. Un luogo dove il cielo, per dirla alla Goethe, si è dimostrato benigno, ricco di doni. Il calore dell’Italia schiude un mondo nuovo ed il lavoro finalmente scorre fluido.
Il resto è noto. Il suo rosso, i suoi chiodi, le performance, libri, strumenti e oggetti bruciati e, infine, il riconoscimento internazionale. L’idea che nell’uomo possa esservi una possibilità di progressione continua, la fiducia nell’individuo che rinasce dalle ceneri, il pensiero che giunti ad un traguardo sia necessario progredire, diventano paradigmi del lavoro di Aubertin che crea opere solenni e maestose.
E poi la malattia. Le cure lo avevano aiutato, ma una sottile malinconia non l’aveva abbandonato: uno spleen sempre più profondo si percepisce nelle parole di un uomo ormai stanco.
E infine l’addio: il 31 agosto 2015 alle 11 del mattino si spegne Bernard, che non si è mai accontentato di piccole mete e che è sempre stato capace di raggiungere ideali irrealizzabili.