Un artista imprevedibile come la sua pittura. Lo studio sembra il gabinetto di uno stregone
ROBERTO SEBASTIAN MATTA
“Non voglio che rimanga incisa la mia voce. La voce poi diventa una cosa pericolosa: sono i demoni a impadronirsene”. Così io, che in un pomeriggio di dicembre del 1985 sono andato nello studio parigino di Roberto Sebastian Matta con tanto di registratore, devo riporre lo strumento e prendere appunti su un notes. “Sa, sono cabalista essendo nato l’11-11-11”, aggiunge per dare forza al suo inatteso comportamento. Inizia pertanto un colloquio dai toni surreali che si addicono a questo straordinario personaggio che ho incontrato la sera prima in casa di Valerio Adami, al Sacré Coeur, nel corso di una festa per celebrare la mostra di quest’ultimo al Pompidou.
Tra un tango e l’altro, danzati da un indemoniato Matta col travagliato concorso della fanciulla di turno, sono riuscito a strappare un appuntamento qui, nel suo rifugio sulla Rive Gauche, in una piazzetta dominata dal monumento a Diderot che mi suggerisce una domanda: “Quale rapporto la lega alla statua di Diderot?” E lui, puntando sulla trasgressione e sul paradosso: “È un rapporto molto semplice e preciso: il prolungamento di una linea immaginaria che unisse il suo ombelico al centro dello sgabello su cui ora io sono seduto verrebbe a cogliere esattamente il buco della serratura del mio studio”. Una risposta da consumato surrealista accompagnata da un disegno chiarificatore.
Matta è imprevedibile come la sua pittura, come gli umanoidi che popolano le tele. Il suo studio sembra il gabinetto di uno stregone abituato a consumare riti di superiore disincanto: con divertita disinvoltura si mette in testa un copricapo di legno sormontato da una figura d’animale scelto tra le maschere totemiche appese alle pareti insieme ai suoi quadri. A questo punto mi viene da chiedergli che cosa pensa della sacralità dell’arte. “L’arte è una forma di espressione laica”, taglia corto. Visto che è un’espressione laica, che cosa ci può dire della sessualità così evidente nelle sue opere? “Surrealismo significa soprattutto sogno e architettura: nel mio caso il sesso è genitale, nell’accezione più strettamente correlabile all’atto di generare, di creare.
Non intendo avvalermi dell’erotismo”. E che cosa rappresentano queste sue cattedrali laiche popolate da interpreti dalle fattezze mutevoli, indefinite? “Io propongo delle organizzazioni, dei neologismi: con queste forme incompiute ognuno può rappresentare ciò che più gli aggrada. L’immaginario è un territorio molto ricco e nessuno oggi lo coltiva abbastanza. Lo si ritrova nella parte invisibile di ogni situazione”. Mi congedo infine da lui ed esco nella sera parigina immersa in un clima irreale che mi sorprende. Il marmoreo Diderot, lo sguardo severo rivolto alla Senna, deve aver imposto il silenzio ai passanti: gli artisti possono trasmettere simili suggestioni a chi viene catturato dalle loro opere, dalle loro “architetture”. Così vengono anche a me pensieri surrealisti, desideri di fuga nell’immaginario.