Qualcuno, con una logica singolare, ha ritenuto che nell’arte la scomparsa di un artista equivalesse, automaticamente, al rilancio delle quotazioni delle sue opere, sia storicamente che economicamente. È un concetto che, paradossalmente, ubbidisce a una dinamica elementare. Lo stop alla produzione determina, inevitabilmente, la conseguente rivalutazione delle opere. Non è così o, almeno, lo è solo raramente. Se nella scia dell’artista non ci sono galleristi, critici, operatori del settore, interessati a incentivarne il ricordo, in un mondo dominato dal potere dei media, l’immagine del pittore tende, indiscutibilmente, a scolorirsi. E non basta nemmeno un nucleo di collezionisti più o meno appassionati, spesso attenti a intervenire sulle opere proposte dal mercato. È uno sforzo tanto generoso quanto inutile. Nessuno, normalmente, può assorbire la produzione che un qualsiasi artista, inevitabilmente, esprime attraverso le canoniche fonti di riferimento: la trattativa privata, le gallerie, gli incanti d’asta. È solo un forte, puntuale modello organizzativo a poter determinare una reale tenuta. La polvere del tempo, quindi, anche in questo settore corre il rischio di determinare l’oblio. Anche perché non esiste più la figura del critico che viaggia negli atelier o tra le famiglie degli artisti, alla riscoperta di un pittore, che apre la sua ricerca a filoni nuovi, inesplorati. Succede, può succedere, solo ed esclusivamente se è una amministrazione locale a sollecitare un interesse verso una gloria stanziale. Ma il processo è destinato a esaurirsi appena gli stimoli economici vengono azzerati. Così come gli stessi eredi, depositari dell’eredità artistica spirituale e materiale del loro congiunto, devono necessariamente sviluppare sano pragmatismo e lucida intelligenza nella gestione di eventuali Fondazioni, mostre, archivi, cataloghi d’arte se non vogliono, in qualche modo, inquinare l’immagine stessa dell’artista. Dall’arte alla letteratura il passo è breve. Prendiamo Moravia, una delle figure più controverse del nostro ‘900. In vita, le sue opere hanno animato un fuoco d’artificio di interessi continui. Al successo della produzione letteraria si è poi affiancato il cinema che ha raccolto, elaborato e, in qualche caso, esaltato la sua vena. Un sincronismo costante, continuo che ha portato sugli schermi “Gli indifferenti” di Francesco Maselli (1964), “ Il disprezzo” di Jean Luc Godard (1963), “La Provinciale” di Mario Soldati (1953) e altre, innumerevoli storie. L’ultima pellicola, “Le ambizioni sbagliate” è datata 1982. Ma dalla scomparsa di Moravia, letteratura e cinema, in larga parte, hanno svolto un semplice ruolo di introspezione critica. Certo, convegni, analisi, rassegne cinematografiche, testi critici. Ma nessuno ha ripreso più in mano l’opera di Moravia per costruire ulteriore arte. Arte da arte, secondo quella logica evolutiva di spontanea gemmazione che deve presiedere le logiche culturali. L’analisi finale appare scontata. La polvere del tempo resta il peggior nemico dell’arte e, per certi versi, dell’umanità. Riduce, annulla, cristallizza il dinamismo che ogni individuo ha espresso in vita. Storicamente, sviluppa libere interpretazioni che, spesso, rimettono in discussione le pagine che la critica sembrava già aver archiviato, proponendo analisi sempre nuove. Senza che i creatori, i protagonisti di questi eventi possano più intervenire, spiegare, valutare. La storia avrebbe, necessariamente, bisogno di una reale par condicio, come la politica. Valutare un volume, un dipinto, una poesia senza un reale contraddittorio, senza la presenza dell’inventore di questa magia, può addirittura cambiare il volto di una biografia, di una vita, di incontri e di intese, di guerre e strategie. In questa chiave, l’unica, pallida garanzia resta il rigore storico che però, in una società urlata, costantemente a caccia di scoop, fa a pugni con la scontata ricerca di immagine e popolarità che sembra pervadere la società contemporanea. Lo storico, paradossalmente, dovrebbe essere come il magistrato. Dovrebbe valutare, approfondire, parlare solo nella strettissima logica dei fatti, ricostruendo, con estrema attenzione, anche le pieghe più intime di una vicenda. Un’ipotesi, per molti versi, utopica. Troppo spesso, il pronunciamento dei media impone la cosiddetta rivisitazione storica perché i talk show, in qualche modo, vanno riempiti, perché la saggistica deve nutrirsi costantemente di nuovo materiale, perché la gente continua a voler vivere, anche nel presente, le storie degli altri.