Posticipata a causa della pandemia, la rassegna comprende dipinti, litografie in dialogo con opere giapponesi
La storia degli incontri – spesso degli scontri – tra Oriente e Occidente è un groviglio intessuto di equivoci, emulazioni, propaganda. Soprattutto, di sproloqui da ambo le parti. Dalla vexata questio su chi ha inventato prima gli spaghetti ai fuochi d’artificio e le porcellane cinesi o i riti zoroastriani di Persia raccontati da Marco Polo, torrenti di parole, geroglifici e ideogrammi hanno tentato di rendere conto delle reciproche curiosità e pregiudizi.
LA TAVOLA BIANCA RICEVE IL GESTO DEL PITTORE CHE, TRADOTTO IN COLORE, DIVENTA SPAZIO DISCRETO, TENUE
Dall’influenza dell’arte giapponese nella produzione artistica di van Gogh, passando per la Polinesia di Gauguin, negli anni ’50 e ‘60 del secolo scorso le influenze artistiche tra Occidente e Oriente – leggasi soprattutto Stati Uniti, Francia e Giappone – vivono un momento particolarmente fertile. Dopo essere stato a Parigi per diversi anni e aver frequentato diversi artisti nipponici, Sam Francis arriva a Tokyo nel ’54, accettando l’invito del grande critico francese Michel Tapié, alla ricerca di reciproche influenze tra arte informale e gutai. Qui ha l’opportunità di riflettere sul concetto e sulla pratica di spazio negativo: superficie sulla tavola, spazio dell’anima, che fa dell’assenza il marchio di una presenza, del bianco la condizione del colore, del silenzio l’unica possibilità del suono. La tavola bianca è la superficie accogliente che riceve il gesto del pittore, ed è proprio nel gesto, tradotto in colore, che l’individualità, la rappresentazione, guadagna uno spazio discreto, tenue.
NEL '54 A TOKYO SU INVITO DI MICHEL TAPIÉ APPROFONDISCE LE INFLUENZE FRA ARTE INFORMALE E GUTAI
“Sam Francis and Japan: Emptiness Overflowing”, al Los Angeles County Museum of Art (fino al 16 luglio), è un’occasione per ripensare, una volta di più, come il “levare” sia un modo per raggiungere un luogo che alcuni pensatori, come Maurice Blanchot, hanno chiamato neutro, e forse alcuni mistici hanno chiamato Dio. Un desiderio di purezza, di assenza, che è senza ombra di dubbio la più grande utopia dell’arte. Ogni tratto di colore è in fondo una macchia, così come le parole sporcano la pagina bianca.
Parlando di assenza, si segnala che, per via di complicazioni dovute alla pandemia (la mostra avrebbe dovuto tenersi nel 2020, ma per ovvie ragioni è stata posticipata), le opere maggiori di Sam Francis presenti si contano, letteralmente, sul palmo di una mano. Molte, troppe, le litografie. Dovendo fare di necessità virtù, i curatori hanno fatto la scelta intelligente di mettere in dialogo le opere di Sam Francis con altre opere di artisti giapponesi. Un dialogo tanto più apprezzabile perché composti di toni, sfumature e, soprattutto, silenzi.