Belli, giovani, spesso palestrati, tutti, obbligatoriamente, con laurea in tasca. Hanno titoli, almeno un tempo, altisonanti: dottori in giurisprudenza, in lettere, in pedagogia, in filosofia. I più rampanti in scienza delle comunicazioni, in marketing, o in informatica. Sono i candidati degli ultimi concorsi pubblici. Si accontenterebbero di un lavoro come funzionario al comune, o come insegnante. Altri, più ambiziosi, aspirano alla magistratura, o alla carriera diplomatica. Incredibile, ma vero: con una media che oscilla dal 50 al 70%, questi ragazzi non superano nemmeno la prima prova, l’esame scritto. Non raggiungono la valutazione minima, 21/30, per l’ammissione agli orali. Il posto fisso se lo possono sognare.
Quando gli esaminatori iniziano a leggere i compiti, in un primo momento, pensano a uno scherzo. Qualche bontempone avrà sostituito i fogli. Difficile credere ai loro occhi: uomini e donne freschi di studio (o, perlomeno, così dovrebbero) dimostrano di non conoscere i rudimenti della lingua italiana. Ma come avranno fatto a prendere la laurea questi ragazzi che infilano uno dietro l’altro madornali errori di ortografia e sintassi che dovrebbero aver appreso a evitare con la licenza elementare? Ecco qualche perla: habbiamo rigorosamente con l’h, ragazi con una zeta sola, superfice senza la i. C’è perfino qualche creativo che mette giù a nomalo per anomalo, violenza della norma in luogo di violazione. A qualche altro viene addirittura in mente che sia competenza di un sindaco dichiarare lo stato di guerra. Tutti bocciati. Tutti – tocca constatare - con titoli notevolmente al di sopra del proprio personale sapere. Un mistero che, a quel livello di istruzione, uno ancora non conosca la differenza fra diramare e dirimere, scriva un’altro con l’apostrofo e, quanto al sostantivo eccezioni, nel dubbio, alterni eccezzioni con eccesioni. Tant’è. Un ragazzo su 5 esce dai nostri atenei laureato e analfabeta (per fortuna, esistono gli altri 4). Lo affermano le statistiche. Quella dell’All-Ocse sostiene che 21 laureati su 100 non vanno oltre la comprensione di testi elementari e sono incapaci di decifrare addirittura il bugiardino di un farmaco, o le istruzioni di una lavastoviglie.
Analfabetismo: termine dal sapore ottocentesco, che sembrava destinato a sparire dal linguaggio corrente. Invece, ancora all’ultimo censimento, gli italiani che firmavano con la croce erano 800.000 e quelli che non avevano finito la quinta elementare 6 milioni. E ora che l’analfabetismo rispunta dove meno ce lo si sarebbe aspettato, all’uscita dalle università? Non solo questione di forma. Chi non sa scrivere è perché non legge. E chi né legge né scrive non sa nemmeno parlare, soprattutto, non sa pensare. E se è incapace di riflessione un quinto della futura classe dirigente, siamo di fronte a un’emergenza su scala nazionale. Tullio De Mauro sosteneva che costoro sono “la rovina del Paese, molto più di un crollo della Borsa”. Paradossale, ma condivisibile.